CAPOLARATO E INFILTRAZIONI MAFIOSE, DUE BRUTTE STORIE

Cronaca nera e ortofrutta, non ne vorremmo scrivere mai. In Puglia, a conclusione di un’indagine della Guardia di Finanza, sono finite agli arresti domiciliari tre persone ed è stato notificato l’obbligo di dimora per altre quattro con l’accusa di associazione a delinquere, caporalato, estorsione, truffa ai danni dell’INPS e autoriciclaggio. Nella Sicilia Orientale un’operazione della Polizia ha portato a 19 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di altrettanti associati a una cosca mafiosa che si era infiltrata nel settore ortofrutticolo e non solo. I due casi sono emersi nelle ultime 48 ore.

Riportiamo le cronache di due giornali di riferimento nelle aree interessate. La Gazzetta del Mezzogiorno di martedì 24 luglio tratta il caso pugliese con dovizia di particolari. Ecco il testo. “Pagavano i braccianti 2,5 euro all’ora, facendoli lavorare fino a 14 ore consecutive sotto i teloni con temperature altissime, pretendendo che ogni giorno restituissero al caporale 2 euro. Gli arrestati sono la donna accusata di fare da caporale, Maria Macchia, l’amministratore e l’addetto alla contabilità dell’azienda agricola Extrafrutta di Bisceglie, Bernardino Pedone e Massimo Dell’Orco. Gli altri 4 indagati, familiari della donna, raccoglievano il denaro dai braccianti. L’indagine è partita due anni dopo segnalazioni anonime e ha monitorato circa 2mila braccianti. E’ emerso anche un trattamento discriminatorio nei confronti delle donne, pagate mediamente meno degli uomini. È stato accertato anche un episodio di omesso soccorso ad una bracciante che si era sentita male tre volte nello stesso giorno. In particolare i finanzieri, coordinati dal pm Ettore Cardinali, hanno accertato in alcuni casi – continua la cronaca della Gazzetta del Mezzogiorno – buste paga inferiori rispetto al lavoro realmente prestato, in altri casi buste paga gonfiate, la cui differenza veniva poi restituita in contanti all’imprenditore che così poteva pagare in nero un’altra parte di lavoratori, soprattutto pensionati e persone con doppio impiego, oltre ad assunzioni fittizie (le figlie e il marito della caporale). I lavoratori, tutti italiani e prevalentemente donne, venivano reclutati nei territori di Mola di Bari, Noicattaro, Conversano e Rutigliano. Alle 3 del mattino partivano i bus diretti in diversi campi di uva e ciliegie della regione, fino ad Andria e Trinitapoli (Fg), dove i braccianti lavoravano fino a 14 ore consecutive. Su disposizione della magistratura barese è stato eseguito anche il sequestro di circa 1 milione di euro e l’azienda è stata sottoposta a controllo giudiziario”.

“Quello che urta la sensibilità – ha raccontato al quotidiano barese il procuratore di Bari, Giuseppe Volpe – è il tono con cui la caporale si esprime nelle conversazioni, con un cinismo raccapricciante. In occasione della morte in un incidente stradale di un ex dipendente, per esempio, la donna dice ‘non pagava, questa è la fine che devono fare quelli che non pagano’. Grazie alla documentazione contabile rinvenuta e sequestrata nel box auto di casa del ragioniere, sono state accertate più di 24mila giornate lavorative e oltre 2 milioni di euro di profitto illecito oltre a 53 mila euro di indennità indebitamente percepite dall’INPS. Dalle sole estorsioni – la ‘quindicina’ perché i 2 euro a giornata venivano consegnati ogni 15 giorni – la caporale avrebbe guadagnato circa 110 mila euro”.
I lavoratori erano istruiti a dire, in caso di controlli, che lavoravano 6 ore al giorno.

Passiamo all’altro caso. Ne riporta mercoledì 25 luglio il quotidiano La Sicilia di Catania. Ecco in sintesi la cronaca. “Avevano avviato un’attività imprenditoriale, ‘La Fenice’, che imponeva agli agricoltori di Pachino di conferire i prodotti delle loro serre, costringendo commercianti e grandi centri di distribuzione a comprare da loro. Così il clan Giuliano, secondo la Dda della Procura di Catania, controllava e condizionava il mercato ortofrutticolo della zona, grazie anche al suo potere intimidatorio. E’ quanto emerge dall’operazione Araba Fenice della squadra mobile di Siracusa che ha eseguito un’ordinanza di custodia cautelare del Gip di Catania nei confronti di 19 persone e disposto il sequestro de La Fenice.

“Grazie a questo meccanismo di blocco del libero mercato, gli indagati – continua la cronaca – pretendevano il pagamento di una ‘provvigione’ che costituiva il corrispettivo di una presunta mediazione contrattuale svolta tra produttori e commercianti. Ma, secondo la Dda della Procura di Catania, le attività illecite del sodalizio non si limitavano al condizionamento illecito del mercato ortofrutticolo. La capacità di penetrazione del clan era tale da colpire anche le altre principali attività economiche della zona: i parcheggi a pagamento a ridosso delle zone balneari, furti di macchinari agricoli e lo spaccio di droga.

“Secondo la polizia a capo della cosca ci sarebbe il boss Salvatore Giuliano, arrestato assieme al figlio Gabriele, in passato al centro di inchieste che hanno visto come vittima il giornalista Paolo Borrometi. Il clan grazie alla forza di intimidazione esercitata dai suoi appartenenti, era in grado di condizionare le attività economiche della zona, traendone indebiti vantaggi, nonché di perpetrare una serie di attività illecite che spaziavano dalle estorsioni, al traffico di sostanze stupefacenti, alla commissione di furti ad abitazioni ed aziende agricole tra Pachino e Porto Palo di Capo Passero”.

La Fenice Società Agricola Srl era stata costituita nel settembre 2013 e si era iscritta al Consorzio di Tutela del Pomodoro di Pachino IGP. Il Consorzio stesso l’ha espulsa all’inizio di marzo di quest’anno. (a.f.)

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