PREZZO MINIMO, GIUSTO, EQUO… FINORA NIENTE HA FUNZIONATO. NEPPURE IN FRANCIA

Prezzo minimo, prezzo giusto, prezzo equo e così via, insomma, dato che le imprese agricole né aggregate in cooperative, né in organizzazioni di produttori (OP), né in associazioni di organizzazioni di produttori (AOP), né agendo all’interno di organizzazioni interprofessionali (OIP) riescono a far valere il loro potere contrattuale nei confronti della grande distribuzione moderna (GDO), l’unica speranza è ricorrere alla protezione dello Stato. E’ proprio così?

Una prima difesa c’è già, è l’art. 62 del DL 24 gennaio 2012, n. 27, noto per i termini perentori di pagamento dei prodotti alimentari che, al comma 2, vieta di “imporre direttamente o indirettamente condizioni di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose”. Certamente, imporre un prezzo di acquisto inferiore al costo di produzione è una condizione gravosa, ma è noto che negli anni di applicazione della norma non si conoscono ricorsi né interventi dell’Autorità garante della concorrenza provocati da questa fattispecie.

Ora però c’è anche l’art. 10 quater, “Disciplina dei rapporti commerciali nell’ambito delle filiere agroalimentari”, della legge 21 maggio 2019, n. 44, che stabilisce, al primo comma, che i contratti stipulati, obbligatoriamente in forma scritta, devono avere, ad eccezione di quelli stagionali, una durata di almeno 12 mesi. Al secondo comma, viene dato incarico all’ISMEA di elaborare mensilmente i costi medi di produzione dei prodotti agricoli sulla base di una metodologia ministeriale. Il terzo stabilisce che, qualora manchi nel contratto almeno una delle condizioni dell’art. 168, comma 4, del Reg. 1308/2013, vale a dire che non siano fissati il prezzo, la durata, la quantità e la qualità del prodotto, le procedure di pagamento, le modalità di consegna e le norme a tutela nei casi di forza maggiore, il pagamento di un prezzo “significativamente” inferiore ai costi medi di produzione costituisce una pratica commerciale sleale. Il quarto fissa la sanzione che può arrivare fino al 10% del fatturato realizzato nell’ultimo esercizio e il quinto stabilisce che l’Autorità garante della concorrenza provvede d’ufficio o su segnalazione di chiunque vi abbia interesse, compresa l’associazione di categoria del fornitore, all’accertamento della violazione e conclude il procedimento inderogabilmente entro 90 giorni. Dall’approvazione della legge ad oggi è passato circa un anno e nessuno è ricorso ad essa, anche perché le condizioni previste dal comma 3 difficilmente possano realizzarsi.

E’ pronta ad arrivare, però, una nuova legge, “Disposizioni in materia di limitazioni alla vendita sottocosto dei prodotti agricoli e agroalimentari e divieto delle aste a doppio ribasso”, già approvata alla Camera e dal 11 febbraio 2020 all’esame della Commissione agricoltura del Senato ed è già pronto un altro disegno di legge, comunicato alla presidenza del Senato il 22 ottobre 2019, dal titolo “Riforma delle modalità di vendita dei prodotti agroalimentari e delega al Governo per la regolamentazione e il sostegno delle filiere etiche di qualità”, che stabilisce, all’art, 2, oltre il divieto dell’utilizzo di aste elettroniche a doppio ribasso, che “Il prezzo minimo di acquisto di prodotti agroalimentari è indicato dall’ISMEA, su base mensile, previo parere non vincolante degli esponenti più rappresentativi di tutta la filiera produttiva e distributiva, tenendo conto dei diversi fattori, endogeni ed esogeni del sistema, che contribuiscono alla determinazione di un prezzo equo sia per i produttori che i per i distributori”. Troppa grazia S. Antonio! Ma proprio il comma riportato letteralmente dimostra la difficoltà di arrivare alla determinazione di un prezzo “minimo equo di acquisto”, soprattutto, se la complessità della procedura ne svuota fin dall’origine la fattibilità e l’efficacia.

L’anno scorso nel n. 28-29 de “L’Informatore agrario” ho scritto “Reddito degli agricoltori: la tutela in un solo articolo”, nel quale confrontavo il tentativo di proteggere gli agricoltori con la fissazione di un costo medio di produzione, come previsto dall’art. 10 quater della legge 21 maggio 2019, n. 44, con un testo di legge francese più ampio ed organico “Pour l’équilibre des relations commerciales dans le secteur agricole et alimentaire et une alimentation saine, durable et accessible a tous” (n. 2018/938 del 30 ottobre 2018). Questa legge, tra molto altro, prevede il riferimento, non a un “costo medio di produzione”, ma a indici dei prezzi dei prodotti agricoli e dei costi di produzione curati da l’ ”Observatoire de la formation de prix et des marges des produits alimentaires”, storica istituzione a servizio dell’agricoltura francese, o dalle organizzazioni interprofessionali (OIP), per poter accertare in sede di contenzioso se il prezzo pagato al fornitore agricolo è “abusivamente basso”. La legge francese non pone, quindi, come riferimento il “costo medio di produzione”, ma riconosce la validità degli indici di prezzo e di costo curati dall’Observatoire o dalle organizzazioni interprofessionali (OIP) per dimostrare in sede giudiziaria o di fronte al “médiateur des relations commerciales agricoles” le responsabilità dell’acquirente.

La stessa Autorità della concorrenza francese si è espressa negativamente sull’uso del “costo medio di produzione” per determinare se un prezzo è “abusivamente basso”. A suo avviso il “costo medio di produzione” diventerebbe, così, una sorta di prezzo minimo con una serie di effetti economici negativi. In primo luogo, impedirebbe a un produttore più efficiente di vendere a un prezzo più basso, frenando la spinta all’innovazione. In secondo luogo, la fissazione di un prezzo minimo ostacolerebbe il collocamento di stock in filiere dove si ripetono delle sovrapproduzioni. Infine, la fissazione di un prezzo minimo potrebbe rendere meno competitiva la produzione nazionale a fronte di prodotti importati.

Ho analizzato il caso francese, perché è dal 1996 che la Francia, prima con la legge Galland e poi con altri provvedimenti, ha cercato di regolare la formazione dei prezzi nella GDO e, in particolare, le vendite sottocosto, ma proprio in questi giorni è stato pubblicato il Rapporto del Senato Francese sul primo anno di applicazione della legge n. 2018/938 a cui ho fatto riferimento e a pag. 21 il titolo del paragrafo è “Un retour aux agriculteurs pour l’instant quasi inexistant”, vale adire che nel primo anno il ritorno per gli agricoltori è stato quasi inesistente.

Allora è inutile l’intervento dello Stato nel mercato? No, lo Stato deve sempre intervenire come regolatore, ad esempio, è molto importante il suo intervento per vietare le aste a doppio ribasso, le vendite sottocosto o altre patologie come quelle citate nella direttiva sulle pratiche commerciali sleali, ma è pericoloso il suo intervento quando altera il funzionamento del mercato e soprattutto la formazione dei prezzi. La risposta allo strapotere della GDO resta ancora nelle mani degli agricoltori e gli strumenti restano quelli citati all’inizio.

Corrado Giacomini

economista agrario, Comitato di indirizzo del Corriere Ortofrutticolo

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