PORTI, L’ASCESA DEL PIREO, VARCO DELL’ESPANSIONE CINESE VERSO L’EUROPA

Bruxelles mercoledì scorso ha lanciato lo “scudo” per difendere le aziende europee dalle scalate di attori stranieri sussidiati dagli Stati di appartenenza. La diretta interessata della legge che deve essere approvata da Consiglio e Parlamento Ue è la Cina che da tempo ha messo gli occhi su società, asset e infrastrutture del Vecchio Continente per sviluppare quella che ormai tutti conoscono come la Nuova Via della Seta.

L’iniziativa, come spiega in un lungo e dettagliato articolo l’Huffingtonpost, è stata presentata dalla Commissaria all’Antitrust Margrethe Vestager.

Lo scudo, in sintesi, funziona così: le aziende che ricevono oltre 50 milioni di euro di sovvenzioni estere e cercano di rilevare attività in Ue per oltre 500 milioni di euro o partecipare a contratti d’appalto da almeno 250 milioni di euro dovranno notificare l’operazione a Bruxelles e ottenere la sua approvazione.

Il porto greco del Pireo: la porta cinese verso l’Europa

Ora: se c’è un caso emblematico di come la presenza cinese abbia stravolto la concorrenza all’interno del mercato europeo è la Grecia, come scrive Claudio Paudice sull’Huffingtonpost. Ad Atene si deve guardare, non all’Acropoli ma più in basso, dove la città si bagna nel mare: il Pireo. Come noto, travolto dalla crisi finanziaria, nel 2009 l’allora governo guidato da Giorgos Papandreou avviò la vendita alcuni asset nazionali per ripagare i debiti e scongiurare un default dello Stato e l’uscita della Grecia dall’eurozona. Tra gli asset inseriti nel vasto programma di privatizzazioni ce n’erano alcuni molto ambiti ma il pezzo pregiato della mercanzia era senza ombra di dubbio il porto di Atene. Ad accaparrarselo fu il gruppo Cosco, dove Cosco sta per China Ocean Shipping Company: colosso statale cinese, all’epoca quinta ma nel tempo diventata la terza compagnia di navigazione al mondo dopo Maersk e Msc. Tra le rabbiose protese sindacali e uno sciopero dei portuali a oltranza, Cosco nel 2009 si assicurò la gestione dei terminal cargo del Pireo, principale porto del Mediterraneo orientale, impegnandosi a costruirne un altro ed a portare il traffico da 600mila a 800mila container nel giro di pochi mesi. Nel dettaglio la concessione ai cinesi di due moli era per 35 anni, e la Cosco avrebbe dovuto pagare in totale un miliardo di euro. Ma il valore economico dell’operazione, si diceva allora, doveva essere complessivamente di 4,3 miliardi tenendo conto degli accordi per la divisione degli utili e degli investimenti che l’impresa statale del Dragone si impegnava a fare.

L’appetito vien mangiando e Cosco, nel 2016, è andata oltre rilevando il 51% non dei moli ma dell’intera Autorità Portuale, prendendo così possesso di tutto il porto: costo dell’operazione, 280 milioni di euro più altri 88 milioni per rilevare dopo cinque anni un altro 16% della Piraues Port Authority (PPA) a determinate condizioni e investimenti da parte del governo.

Così la Cina ha fatto del Pireo il suo primo vero mattone della nuova Via della Seta, un ponte per l’espansione commerciale e industriale asiatica in Europa, con massicci investimenti non solo nei terminal, ma anche nella logistica, nelle riparazioni navali e nel turismo. Il dato che conta è il seguente: i cinesi si sono assicurati il controllo del porto della Grecia fino al 2052. Nel Pireo Cosco opera sia da terminal operator ma pure concessionario, cliente e fornitore di se stesso. E punta ad allargarsi ancora, costruendo il quarto terminal container, al momento in ritardo a causa di intralci burocratici e della titubanza delle autorità pubbliche che devono fare i conti anche con l’altra faccia della medaglia: le resistenze locali. Il sindaco della città portuale (nonché proprietario della squadra di calcio Olympiacos FC) si è fatto promotore dei dubbi nei confronti dell’espansionismo cinese con progetti sempre più invasivi che contemplano, per esempio, la costruzione di quattro hotel di lusso all’interno del porto.

L’exploit dei traffici del Pireo

Poco importa perché l’arrivo dei cinesi ad Atene ha garantito quell’exploit dei traffici che Pechino aveva promesso. I numeri parlano da soli: nel 2009 il porto del Pireo movimentava meno di 700mila Teu (unità di misura per i contenitori da 20 piedi). Nel 2014 ne movimentava 3,6 milioni, nel 2019 è arrivato a 4,9 milioni. “Nel 2010”, racconta all’HuffPost Alessandro Panaro, direttore Osservatorio Traffici Marittimi di SRM Intesa Sanpaolo, “il Pireo non era affatto competitivo, Valencia faceva quattro volte i suoi contenitori, Tanger Med ne faceva già due milioni, Port Said tre e mezzo mentre il porto greco non arrivava a farne uno. Da quando è arrivato il colosso cinese è diventato il secondo porto del Mediterraneo e oggi muove più di cinque milioni di Teu”. Pechino ha visto tutta la potenzialità dell’infrastruttura portuale e non se l’è lasciata sfuggire appena è stato avviato il programma di privatizzazioni statali da parte della Taiped, l’ente greco per la Valorizzazione delle Proprietà dello Stato: ”È chiaro che la vicenda greca è avvenuta in un contesto particolare, dove il governo era schiacciato dal peso del debito. Non sappiamo se in un contesto diverso ne avrebbe ceduto il controllo”, continua Panaro.

Per certi versi il caso del Pireo rappresenta un altro dei costi nascosti e indiretti delle politiche di austerità praticate dall’Unione Europea durante la crisi del debito e oggi considerate unanimemente superate. L’ingresso prepotente dei cinesi nel Mediterraneo non è stato indolore per gli altri porti europei, italiani inclusi, costretti a competere con un colosso pubblico di uno Stato estero mentre loro sono da sempre vincolati al rispetto delle norme europee sugli aiuti di Stato. Per questo l’iniziativa della Commissione per istituire uno scudo anti-scalate è stata accolta positivamente: “In passato erano stati fatti dei tentativi ma gli Stati membri decisero poi di fare da sé”, dice all’HuffPost Marco Conforti, vicepresidente di Confetra e delegato italiano nel board di Feport, l’associazione europea dei terminalisti portuali. “Non c’era accordo sulla definizione di asset strategico, alcuni Paesi ancora non avevano norme sul golden power, insomma non si trovò una intesa. Fatto sta che mentre Bruxelles era inflessibile sugli aiuti di Stato per le aziende comunitarie, non disponeva di armi per resistere agli investitori stranieri sussidiati dai Paesi di appartenenza”. Una guerra impari permessa dalle stesse norme europee sulla concorrenza a tutto vantaggio degli attori stranieri. “Ma è chiaro che se tu cinese vieni qui lo devi fare stando alle mie regole, o almeno così avrebbe dovuto funzionare. Speriamo che questa sia la volta buona”, è l’auspicio di Conforti.

L’interesse del governo di Pechino per il porto greco non è casuale. Il 60% del commercio cinese avviene via mare e la Cina è leader mondiale del trasporto su nave, con una quota del 35% sul traffico container. E “hanno eletto lo scalo di Atene al centro della loro strategia di investimento per la Via della Seta, una strategia molto più ampia che incrocia punti chiave e snodi dei traffici. Si guarda a come si sono posizionati all’ingresso di Suez, del Mar Nero, e nel Nord Europa”, continua Panaro di Srm-Intesa. Cosco ha infatti partecipazioni anche in altri scali europei come nei terminal container di Rotterdam (primo porto d’Europa), Anversa, Zeebrugge, Bilbao, Valencia e scali ferroviari di Madrid e Saragozza, mentre un altro colosso pubblico di Pechino, China Merchant, detiene invece una quota di minoranza a Marsiglia.

Tornando alla Grecia, l’arrivo di Cosco nel Pireo ha avvicinato molto Atene e Pechino anche sul piano politico. Nel 2019 Xi Jinping e il presidente greco da poco eletto Mitsotakis hanno celebrato la collaborazione portuale, ricordando come il progetto abbia favorito la creazione di diecimila posti di lavoro. Altro esempio dell’influenza cinese su Atene è la decisione della Grecia nel 2017 di bloccare una dichiarazione dell’Unione Europea all’Onu nella quale si criticava la Cina per il suo scarso rispetto dei diritti umani. Le conseguenze del predominio cinese però travalicano anche i confini nazionali e hanno ripercussioni anche economiche sugli altri Paesi dell’Ue.

L’ingombrante presenza di Cosco nel Mediterraneo ha avuto “un impatto diretto su tutti i porti del Mediterraneo, inclusi quelli italiani”, spiega Panaro. I numeri sono lì a testimoniarlo: se il traffico contenitori in Grecia è cresciuto di oltre il 600% in Italia ha subito variazioni ben più contenute. Secondo un report Srm nel 2016 l’Italia muoveva 10,5 milioni di Teu, nel 2020 poco meno di 10,7 milioni. Ironico se si pensa che 10 milioni di Teus è grossomodo l’obiettivo verso cui sta navigando Cosco grazie al solo porto del Pireo.

La vocazione naturale al transhipment (cioè al trasbordo, dove avviene la rottura di carico della merce che poi si muove nei porti di approdo) del Pireo a causa della debolezza delle infrastrutture retroportuali e intermodali della Grecia ha certamente contribuito poi al graduale declino di scali italiani come Cagliari e Taranto, mentre Gioia Tauro è riuscita a resistere all’egemonia cinese nel Mediterraneo grazie agli investimenti di Msc. Il porto pugliese è rimasto chiuso al traffico dei contenitori dal 2015 dopo l’addio di Evergreen, la compagnia di navigazione taiwanese della portacontainer Ever Given rimasta bloccata a Suez poche settimane fa, e ha riaperto solo quest’anno con l’arrivo di Yilport e Cma Cgm nel molo polisettoriale. Il maggiore declino lo ha vissuto Cagliari dopo l’addio del terminalista Contship: se a metà degli anni 2010 arrivava a trasbordare tra i quattrocento e seicentomila Teu, quest’anno supera a malapena diecimila Teu.

I motivi del declino dei porti di trashipment italiani

È chiaro che i fattori che hanno portato al declino dei porti di transhipment italiani sono variegati. D’altronde un terminal container per arrivare a break even (punto di pareggio tra entrate e uscite) deve fare almeno il 40% di traffico gateway (cioè connesso e diretto al traffico dell’entroterra). Oppure, se si occupa di pure transhipment, deve movimentare almeno quattro milioni di Teu. L’Italia, in passato, aveva ben tre di porti dedicati al solo transhipment: oggettivamente troppi. Ma la spietata concorrenza cinese non ha aiutato. Come si legge in un Position Paper del 2018 di Confetra, “con gli investimenti nella Via della Seta il livello della competizione si innalza fortemente”, anche per l’Italia, verso la quale Pechino non ha lesinato il suo interesse. Qualche mese fa ha fatto discutere l’ingresso dei terminalisti di Amburgo nella concessione per la nuova Piattaforma logistica di Trieste, ma pochi ricordano che prima dei tedeschi erano stati i cinesi ad avere mire sull’infrastruttura nuova di zecca dello scalo giuliano. C’è poi la presenza della solita Cosco e di Qingdao nel terminal di Vado Ligure con una partecipazione azionaria complessiva del 49% mentre il restante 51% è dei danesi di Maersk. “In Italia siamo un po’ più dubbiosi e un po’ più restii nei confronti di Pechino, ma ogni investimento estero è benvenuto purché avvenga nel rispetto delle regole e della reciprocità”, conclude Panaro.

“Sugli investimenti cinesi bisogna vigilare perché non è giusto che alcuni attori operino secondo le regole del mercato e altri invece siano sussidiati dagli Stati. Questo comporta dei rischi, che sono maggiori nel caso degli Stati altamente indebitati”, conclude Conforti di Confetra. Nel caso della Grecia Pechino ha messo le mani su una infrastruttura logistica strategica dalle potenzialità enormi approfittando della crisi finanziaria del 2009. “D’altronde”, conclude Conforti, “secondo John Adams che ci sono due modi di conquistare e dominare una nazione: uno è con la spada, l’altro è con il debito”. L’Europa è avvisata, l’Italia – col suo immenso debito pubblico – pure.

(fonte: Huffingtonpost)

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