L’EXPORT ORIENTED NEL SANGUE: ALCUNI ESEMPI VIRTUOSI DI CHI SCOMMETTE (E VINCE) SULL’ESTERO

C’è chi vende kiwi ai cinesi e chi carote agli olandesi. Chi esporta pere in Corea e radicchio negli Stati Uniti. Chi fornisce finocchi ai danesi o le insalate ai confezionatori anglosassoni. Sono gli alfieri dell’ortofrutta made in Italy che giocano su una scacchiera mondiale.

Imprenditori, OP e cooperative agricole super specializzate, spesso con monoprodotto, che realizzano sui mercati esteri gran parte del loro business.

A delineare il quadro dell’export ortofrutticolo tricolore da parte di aziende medio piccole ma super organizzate è il Sole24Ore.

Andando sui numeri il Sole ricorda come oltre il 70% della produzione nazionale di kiwi e il 50% di quelle di ciliegie viene venduta all’estero e i tre principali distretti ortofrutticoli export oriented (quello romagnolo e barese e quello altoatesino per le mele) superano i 500 milioni di euro di vendite oltre frontiera. E quelli della frutta piemontese, della Piana del Sele, del Foggiano e dell’Agro Pontino, veleggiano sopra i 200 milioni di euro (fonte Monitor dei distretti Intesa Sanpaolo). Nel 2021, nonostante la difficile congiuntura, secondo Nomisma, l’export italiano di ortofrutta ha guadagnato un 13,4% a valore in più rispetto al 2019.

Per affermarsi all’estero serve professionalità: prodotto, servizio, affidabilità. In una parola qualità a tutto tondo. “Ci viene riconosciuta la capacità di rispondere in modo veloce e puntuale alle nuove tendenze del mercato, oltre ai valori di continuità delle forniture, qualità del prodotto e sostenibilità”, afferma Massimo Bragotto, direttore generale di Cultiva, OP veneta a cui si deve la notorietà del radicchio nel mondo (lo coltiva anche negli Usa da 40 anni) e che nel 2021 ha realizzato nella UE metà degli oltre 40 milioni fatturati, con punte del 90% nelle insalate di prima gamma destinate ai processor locali.

Nemmeno la Brexit ha fermato le vendite in Gran Bretagna, primo mercato di sbocco, e neppure il conflitto in Ucraina spegne l’ottimismo per il 2022, soprattutto per il biologico che ormai genera un quarto dell’export a valore.

Biologico e biodinamico certificato Demeter sono gli elementi distintivi che hanno permesso al gruppo pugliese Tarulli di conquistare l’Europa, dove realizza tutti i 20 milioni di fatturato. “L’azienda esiste proprio grazie al successo ottenuto all’estero, dove la nostra uva da tavola viene apprezzata e valorizzata”, spiega Marilena D’Augenti, socia e responsabile vendite dell’azienda agricola di cui il fondo IdeA Agro ha rilevato il 45% nel 2019. Dai 350 ettari coltivati dalla OP si ottengono circa 8 mila tonnellate di uva da tavola, che finiscono nella GDO di una decina di Paesi, in particolare in Germania.

Sono gli olandesi, invece, i maggiori acquirenti del barattiere, un melone tipico della Puglia che, per affermarsi nei Paesi Bassi, ha scelto di chiamarsi cumelo. Il link tra la piattaforma internazionale The Greenery e i produttori pugliesi di Miss Freschezza ha funzionato, tanto che le coltivazioni stanno aumentando e quest’ortaggio è entrato anche in Germania.

Finiscono in oltre 60 Paesi le carote e gli ortaggi coltivati e lavorati nella Piana del Fucino dalla Aureli Mario, oggi diventata un esempio virtuoso di economia circolare visto che, oltre a commercializzarli freschi, ne ricava ingredienti gluten free e coloranti naturali. E dal recupero delle carote imperfette ottiene prodotti alimentari, come succhi, liquori e carotine snack, che ha introdotto per primo in Italia una ventina di anni fa.

Approccio analogo quello che l’azienda Paolillo ha applicato ai finocchi, di cui è uno specialista da 16 mila tonnellate di prodotto l’anno, e da cui ricava anche estratti, smoothies e cosmetici. E proprio il finocchio è uno dei portabandiera dell’ortofrutta italiana all’estero. Ne siamo i maggiori produttori mondiali, lo consumiamo ormai tutto l’anno e lo stiamo facendo conoscere in mezzo mondo. “Delle sue potenzialità ci siamo accorti presto, tanto che abbiamo deciso di specializzarci”, spiega Marco Babbi, che, insieme ad un socio, nel 2006 ha creato Finò (8 milioni di euro di fatturato nel 2021). con 140 mila quintali di prodotto lavorato ogni anno, oggi vendono il 65% della produzione invernale all’estero, soprattutto in Austria, Svizzera, Francia e Germania.

Tutta da conquistare è l’Europa orientale, dove il finocchio è praticamente sconosciuto. “Il prodotto italiano non ha rivali per qualità ma noi abbiamo investito anche per garantire servizio e prezzo e i mercati ci stanno premiando, stiamo crescendo del 15% sul 2021”.

Scenario positivo anche per il Consorzio Jingold, cinese nel nome (in onore della varietà di kiwi a polpa giallo Jintao sviluppata in Cina e di cui detiene la licenza) ma italianissimo nella realtà, visto che è made in Italy il 90% delle 20 mila tonnellate commercializzate (il restante 10% arriva dall’emisfero meridionale, in controstagione). Ma il business è globale perché il 90% dei ricavi di questo specialista mondiale del kiwi (53 milioni nel 2021) vengono dall’estero, perlopiù dalle UE ma anche da Oltremare (Usa, Brasile, Messico, Canada ed Estremo Oriente). “Per incontrare tutti i diversi gusti abbiamo acquisito anche altre varietà di alta qualità, come i kiwi a polpa rossa e quelli verdi Boerica, più dolci e allungati, molto apprezzati dai consumatori cinesi”, spiega il responsabile marketing di Jingold Federico Milanese.

(fonte: IlSole24Ore)

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