GALLO: “FARE RESIDUO ZERO È ANCORA PIÙ COMPLESSO DEL BIO”

Sulla Piana di Sibari, in Calabria, da 80 anni, l’azienda Gallo si dedica alla frutticultura, sempre nel rispetto dell’ambiente, di cui – dice Natalino Gallo (nelle foto) – “non siamo proprietari, ma solo custodi”.

Gallo è convinto che il vero agricoltore debba ragionare così ed è per questo che si dedica a biologico e residuo zero da tempo.

Da anni Gallo è anche presidente dell’OP Agricor, nata per valorizzare la produzione della Piana, e, da imprenditore, racconta: “Noi lavoriamo in questa direzione da più di 25 anni, questa è la nostra filosofia; adesso è di moda, ma noi lo facevamo già da tempo, anche stimolati dalla collaborazione con Esselunga, azienda da sempre interessata all’ambiente: con loro facevamo il marchio Naturama, ed eravamo già 20 anni fa al di sotto del 30% di residuo. Fa parte della nostra filosofia non usare diserbanti, ma magari predatori, anche se con i cambiamenti climatici sta diventando sempre più difficile”.

Insomma, è la cultura dell’azienda che fa la differenza, per Gallo. E, dopo anni di biologico, è iniziata l’avventura del Residuo Zero: “Per certi aspetti il Residuo Zero – a cui lavoriamo da 4-5 anni – è anche più difficile del biologico. Nel bio, infatti, alcuni prodotti sono concessi; nel Residuo Zero no, neanche il rame, per fare un esempio, e quindi bisogna ricorrere a tecniche di coltivazione e di potatura delle piante che permettano di arrivare poi al traguardo”.

È evidente – aggiunge Gallo – “che il biologico deve rispettare un protocollo molto preciso, ma il Residuo Zero offre una garanzia in più al consumatore, sotto certi punti di vista”. Un esempio, la buccia della frutta: “Nel caso della frutta coltivata a Residuo Zero quella buccia – che sia di arancia o di melograno – può essere davvero utilizzata così com’è, in un aperitivo perché non c’è niente che possa danneggiare la salute”.

Gallo, in questo senso, concorda con quanto sostenuto da Davide Spadaro, professore al dipartimento di Scienze agrarie, forestali e alimentari (DISAFA) dell’Università di Torino che a GreenPlanet aveva riferito che il residuo zero può essere in qualche modo considerato una “terza via”, che dà garanzie al consumatore più sulla salute personale che sull’ambiente.

“Credo che il consumatore attratto dal prodotto a Residuo Zero sia culturalmente più istruito”, afferma, e sottolinea: “Come si può usare in un aperitivo un limone importato dall’Emisfero Sud del pianeta in un aperitivo o una buccia di arancia importata dal Sudafrica? Si mangerebbe del veleno. Con il prodotto Residuo Zero si può fare e si può anche stare più tranquilli se si vuole fare una marmellata fatta in casa”.

Gallo, tuttavia, sottolinea le difficoltà di fare questo tipo di coltivazione. E lo dice dal punto di vista di agricoltore che fa sia filiera che biologico che residuo zero. “Benché la nostra cultura aziendale sia storicamente impostata sul 30%, e quindi al di sotto del limite posto dal Ministero, fare Residuo Zero oggi è molto complicato, anche quando si ha nel proprio DNA l’utilizzo dei metodi tradizionali. Questo perché il cambiamento climatico sta mettendo a dura prova l’agricoltura: il terreno non è mai ‘libero’, se si toglie qualcosa arriva l’invasione di altri insetti. E allora si cercano strade nuove, si sperimenta, si aggiunge acqua, si sta attenti alle potature, si fa ricerca per rispondere all’evoluzione dei tempi”. Il cambiamento climatico, tuttavia, resta un problema anche per gli altri tipi di coltivazioni: “Con temperature a 40 gradi una pianta di albicocco non reagisce più a nulla e la frutta resta piccola: questa è una certezza”.

Chiara Affronte

(fonte: Greenplanet.net)

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