Delusi i movimenti ecologisti, a partire da Greenpeace. Ma, almeno, a Durban (Sudafrica), il vertice sul clima delle Nazioni Unite, il n.17 della serie, non si è concluso in un fallimento completo. C’è mancato poco che ognuno non andasse per la propria strada: gli americani, che non ne volevano sapere di concludere un qualsivoglia accordo e hanno fatto per giorni ostruzionismo.
I cinesi, che sono stati alla finestra per tutti i 13 giorni del dibattito, i Paesi emergenti, convinti che le loro economia non possano decollare senza petrolio e carbone (i grandi responsabili delle emissioni di veleni in atmosfera, con conseguente accelerazione del cambiamento climatico). Solo oggi all’alba, dopo un lunghissima trattativa ininterrotta, è stato sottoscritto un documento comune, grazie alla mediazione dell’Unione Europea e dei piccoli Paesi che rischiano di sparire dalla faccia del pianeta a causa di uragani, alluvioni, siccità.
Un documento in cui si sono presi impegni per il futuro, facendo da subito solo alcune piccole cose. Gli impegni riguardano il percorso da fare: trattato globale sulla lotta ai cambiamenti climatici entro il 2015, applicazione del trattato a partire dal 2020. Un gruppo di lavoro è stato incaricato di lavorare in questa direzione. E intanto? Cosa succederà nel frattempo? Le emissioni in atmosfera continueranno a crescere sui cieli degli USA, dell’India, della Cina e di altri Paesi? E siamo sicuri che per 8-9 anni l’umanità sarà graziata da una o più catastrofi dovute al clima impazzito?
Questa esattamente è la preoccupazione degli ecologisti. Kumi Naidoo, direttore internazionale di Greenpeace, ha detto che la buona volontà di alcuni Paesi e dell’Unione Europea potrebbe non essere sufficiente da qui al 2020 ad evitare il peggio: "Siamo in una situazione di pericolo, rischiamo di entrare in una fase di catastrofi potenziali. Non c’è un piano di salvataggio che è esattamente quello che ci si aspettava a Durban, le nazioni se lo sono fatto scivolare via dalle mani ascoltando più che la volontà dei loro cittadini quella delle corporation responsabili dell’inquinamento".
Dello stesso avviso è tutto il network Climate Justice Now! di cui fa parte l’organizzazione dell’economia solidale Fair, il cui rappresentante italiano, Alberto Zoratti, ha commentato: "Un risultato debole, insufficiente, non all’altezza della crisi climatica che ci troviamo ad affrontare". L’accordo di Durban prevede comunque la costituzione di un Fondo Green, con 100 miliardi di dollari l’anno dal 2020 per aiutare le nazioni più povere a combattere le crisi climatiche. I meccanismi di finanziamento di questo fondo non sono ancora chiari ma, nelle intenzioni dei promotori, esso dovrebbe agevolare quanto prima il trasferimento di tecnologie green dai Paesi che le possiedono a quelli svantaggiati. Il ministro Clini, presente ai lavori, ha dichiarato che ciò rappresenta una grande occasione per l’Italia, che potrebbe vendere tecnologia verde a grandi Paesi come l’India, il Brasile, il Messico, lo stesso Sudafrica. Dev’essere stato proprio questo ‘profumo di business’ a convincere i recalcitranti americani e cinesi a mettere la loro firma al documento finale di Durban. Tra USA e Cina infatti è in corso una grande sfida globale sulle tecnologie green. Un flusso di finanziamenti internazionali potrebbe mettere tra i due un po’ di pace.
Antonio Felice
www.greenplanet.net
CLIMA, A DURBAN ACCORDO SUL FUTURO. E ORA?
Delusi i movimenti ecologisti, a partire da Greenpeace. Ma, almeno, a Durban (Sudafrica), il vertice sul clima delle Nazioni Unite, il n.17 della serie, non si è concluso in un fallimento completo. C’è mancato poco che ognuno non andasse per la propria strada: gli americani, che non ne volevano sapere di concludere un qualsivoglia accordo e hanno fatto per giorni ostruzionismo.
I cinesi, che sono stati alla finestra per tutti i 13 giorni del dibattito, i Paesi emergenti, convinti che le loro economia non possano decollare senza petrolio e carbone (i grandi responsabili delle emissioni di veleni in atmosfera, con conseguente accelerazione del cambiamento climatico). Solo oggi all’alba, dopo un lunghissima trattativa ininterrotta, è stato sottoscritto un documento comune, grazie alla mediazione dell’Unione Europea e dei piccoli Paesi che rischiano di sparire dalla faccia del pianeta a causa di uragani, alluvioni, siccità.
Un documento in cui si sono presi impegni per il futuro, facendo da subito solo alcune piccole cose. Gli impegni riguardano il percorso da fare: trattato globale sulla lotta ai cambiamenti climatici entro il 2015, applicazione del trattato a partire dal 2020. Un gruppo di lavoro è stato incaricato di lavorare in questa direzione. E intanto? Cosa succederà nel frattempo? Le emissioni in atmosfera continueranno a crescere sui cieli degli USA, dell’India, della Cina e di altri Paesi? E siamo sicuri che per 8-9 anni l’umanità sarà graziata da una o più catastrofi dovute al clima impazzito?
Questa esattamente è la preoccupazione degli ecologisti. Kumi Naidoo, direttore internazionale di Greenpeace, ha detto che la buona volontà di alcuni Paesi e dell’Unione Europea potrebbe non essere sufficiente da qui al 2020 ad evitare il peggio: "Siamo in una situazione di pericolo, rischiamo di entrare in una fase di catastrofi potenziali. Non c’è un piano di salvataggio che è esattamente quello che ci si aspettava a Durban, le nazioni se lo sono fatto scivolare via dalle mani ascoltando più che la volontà dei loro cittadini quella delle corporation responsabili dell’inquinamento".
Dello stesso avviso è tutto il network Climate Justice Now! di cui fa parte l’organizzazione dell’economia solidale Fair, il cui rappresentante italiano, Alberto Zoratti, ha commentato: "Un risultato debole, insufficiente, non all’altezza della crisi climatica che ci troviamo ad affrontare". L’accordo di Durban prevede comunque la costituzione di un Fondo Green, con 100 miliardi di dollari l’anno dal 2020 per aiutare le nazioni più povere a combattere le crisi climatiche. I meccanismi di finanziamento di questo fondo non sono ancora chiari ma, nelle intenzioni dei promotori, esso dovrebbe agevolare quanto prima il trasferimento di tecnologie green dai Paesi che le possiedono a quelli svantaggiati. Il ministro Clini, presente ai lavori, ha dichiarato che ciò rappresenta una grande occasione per l’Italia, che potrebbe vendere tecnologia verde a grandi Paesi come l’India, il Brasile, il Messico, lo stesso Sudafrica. Dev’essere stato proprio questo ‘profumo di business’ a convincere i recalcitranti americani e cinesi a mettere la loro firma al documento finale di Durban. Tra USA e Cina infatti è in corso una grande sfida globale sulle tecnologie green. Un flusso di finanziamenti internazionali potrebbe mettere tra i due un po’ di pace.
Antonio Felice
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