“Siamo in una situazione kafkiana: abbiamo ordini, ma non ci conviene lavorare“. Lo sfogo di un grande imprenditore del tessile su Repubblica (1 gennaio) si confà perfettamente all’ortofrutta.
Andrea Parodi, amministratore delegato di Fil Man Made Group – azienda tessile con 900 dipendenti in cinque stabilimenti nel mondo – dice che non sa se riaprire le aziende italiane di Trieste e Pordenone dopo la pausa natalizia. “Un anno fa a gennaio ho pagato 350 mila euro di elettricità. A dicembre la bolletta è salita a 1,4 milioni di euro: quattro volte tanto in appena dodici mesi”. Dal tessile agli ortaggi. Proprio sotto le Feste di Natale-Fine Anno è arrivato l’ennesimo allarme dal mondo dell’ortofrutta, questa volta dal mondo pataticolo.
Il grido di allarme è di AgriPat, società agricola cooperativa, Organizzazione di Produttori che associa circa 1.000 aziende agricole: “Il settore pataticolo italiano presto non sarà più nelle condizioni di produrre se non troverà un punto di equilibrio con la Distribuzione per un approccio condiviso sull’aumento dei costi di produzione, oramai insostenibili, derivanti dai rincari delle materie prime”. La frase è un po’ contorta ma significa una sola cosa: se non aumentiamo i prezzi pagati alla produzione, “non ci conviene lavorare”, come dice l’imprenditore del tessile di cui sopra. La diagnosi è precisa: l’aumento generalizzato dei costi di energia, trasporti, materiali di imballaggio e oneri annessi, “finora sostenuto interamente dalla produzione, senza alcuna apertura concreta da parte della Distribuzione Organizzata nazionale, nonostante il proliferare di slogan pubblicitari a tutela dell’intera filiera” sta generando “l’impossibilità, per le aziende agricole e di trasformazione, di coprire i costi di produzione”, scrive Agripat.
Allora, la situazione è davvero kafkiana. Sotto le Feste abbiamo visto le nostre televisioni (e i giornali) traboccare di spot pubblicitari da parte delle catene: tanti auguri agli italiani, tanta retorica sotto l’albero di Natale, un profluvio di messaggi con overdose di parole come sostenibilità, comunità, di avverbi come ‘insieme’, di aggettivi come ‘uniti’, di appelli come ‘ce la faremo’, ecc. Ma se tutti questi investimenti, sicuramente milionari, sui media e sulle televisioni, le catene li avessero riservati – non dico tutto ma almeno in parte – a un qualche ristoro di prezzo ai produttori, alla rinuncia alle promozioni selvagge, alla valorizzazione del vero made in Italy, non sarebbe un segnale, un buon esempio di ‘sostenibilità’, di spirito di ‘comunità’, di lavoro ‘insieme’? Come mai in questo Paese c’è la tendenza a non fare mai quello che si dice, quello che si proclama? In Germania Aldi pagherà 0,09 euro in più al chilo per acquistare le banane, pari a 1,63 euro in più a scatola. L’accordo, raggiunto dal colosso tedesco dei discount e i grandi produttori di banane del Sudamerica, segue un lungo e aspro dibattito che qualcosa ha portato in casa dei produttori.
In Italia? Finora niente, eppure l’allarme è stato lanciato da Fruitimprese ai primi di dicembre.
Capisco che i bilanci delle catene vengono da un anno di uova d’oro, e infatti stanno aumentando le aperture, i nuovi format, i restyling, gli investimenti… per carità, tutto giusto, tutto bello. E infatti la comunicazione di settore è prodiga, generosa, benevola di attenzione verso quello che fa la GDO, verso la crescita esponenziale dei punti-vendita, delle novità, dell’innovazione nel reparto ortofrutta (tema cui si continua a dedicare focus, eventi, attenzione, analisi, come se non avessimo già sviscerato tutto il possibile sull’argomento). Ma – e lo diciamo sommessamente – un po’ più di attenzione alla produzione, a chi tutte le mattine apre bottega e si trova a fare i conti non solo con il Paese dalla burocrazia demenziale, con il cambiamento climatico, con il meteo impazzito e le bombe d’acqua, con nuovi e vecchi patogeni ma adesso anche con un aumento dei costi di produzione che non dipende da noi ma da fattori internazionali, da Putin, dall’Ucraina, dal gasdotto vattelapesca, dalla Cina o da Biden, questo no? La GDO, attraverso i suoi uomini-portavoce, sempre tanto coccolati, tanto vezzeggiati da certa informazione di settore, fa quasi sempre la lezioncina, la predica al mondo produttivo-commerciale: non siete organizzati, non programmate, non fate squadra… In molti casi le prediche, le critiche sono motivate, in altri casi sono pretestuose e servono solo come alibi per avere mani libere in manovre spericolate sui prezzi a scapito della produzione. E’ vero che non tutte le catene sono uguali e c’è chi è più spudorato e chi meno. Ma in questa fase in cui gli aumenti dei costi di produzione sono sotto gli occhi di tutti, sono certificati, non sarebbe il caso di smettere di fare ‘ammuina’ e sedersi a un tavolo e valutare (chi ci sta, ci sta) dove, come e quando ritoccare i prezzi pagati alla produzione? Senza fare di ogni erba un fascio ma valutando caso per caso, come hanno proposto le voci più responsabili del mondo produttivo privato e cooperativo?
Senza prezzi più alti per la produzione, le imprese del settore si vedranno costrette a scaricare le loro difficoltà a monte e a valle della filiera, coinvolgendo imballaggi, packaging, macchine e tecnologie, logistica e trasporti, servizi vari. Una crisi di sistema. E a quel punto, bye-bye made in Italy…
Lorenzo Frassoldati
direttore del Corriere Ortofrutticolo
l.frassoldati@alice.it
DALLE PATATE NUOVO ALLARME SUI COSTI. INTANTO LA GDO FA SPOT MILIONARI SULLE TV. MA NIENTE APERTURE SUI PREZZI ALLA PRODUZIONE
“Siamo in una situazione kafkiana: abbiamo ordini, ma non ci conviene lavorare“. Lo sfogo di un grande imprenditore del tessile su Repubblica (1 gennaio) si confà perfettamente all’ortofrutta.
Andrea Parodi, amministratore delegato di Fil Man Made Group – azienda tessile con 900 dipendenti in cinque stabilimenti nel mondo – dice che non sa se riaprire le aziende italiane di Trieste e Pordenone dopo la pausa natalizia. “Un anno fa a gennaio ho pagato 350 mila euro di elettricità. A dicembre la bolletta è salita a 1,4 milioni di euro: quattro volte tanto in appena dodici mesi”. Dal tessile agli ortaggi. Proprio sotto le Feste di Natale-Fine Anno è arrivato l’ennesimo allarme dal mondo dell’ortofrutta, questa volta dal mondo pataticolo.
Il grido di allarme è di AgriPat, società agricola cooperativa, Organizzazione di Produttori che associa circa 1.000 aziende agricole: “Il settore pataticolo italiano presto non sarà più nelle condizioni di produrre se non troverà un punto di equilibrio con la Distribuzione per un approccio condiviso sull’aumento dei costi di produzione, oramai insostenibili, derivanti dai rincari delle materie prime”. La frase è un po’ contorta ma significa una sola cosa: se non aumentiamo i prezzi pagati alla produzione, “non ci conviene lavorare”, come dice l’imprenditore del tessile di cui sopra. La diagnosi è precisa: l’aumento generalizzato dei costi di energia, trasporti, materiali di imballaggio e oneri annessi, “finora sostenuto interamente dalla produzione, senza alcuna apertura concreta da parte della Distribuzione Organizzata nazionale, nonostante il proliferare di slogan pubblicitari a tutela dell’intera filiera” sta generando “l’impossibilità, per le aziende agricole e di trasformazione, di coprire i costi di produzione”, scrive Agripat.
Allora, la situazione è davvero kafkiana. Sotto le Feste abbiamo visto le nostre televisioni (e i giornali) traboccare di spot pubblicitari da parte delle catene: tanti auguri agli italiani, tanta retorica sotto l’albero di Natale, un profluvio di messaggi con overdose di parole come sostenibilità, comunità, di avverbi come ‘insieme’, di aggettivi come ‘uniti’, di appelli come ‘ce la faremo’, ecc. Ma se tutti questi investimenti, sicuramente milionari, sui media e sulle televisioni, le catene li avessero riservati – non dico tutto ma almeno in parte – a un qualche ristoro di prezzo ai produttori, alla rinuncia alle promozioni selvagge, alla valorizzazione del vero made in Italy, non sarebbe un segnale, un buon esempio di ‘sostenibilità’, di spirito di ‘comunità’, di lavoro ‘insieme’? Come mai in questo Paese c’è la tendenza a non fare mai quello che si dice, quello che si proclama? In Germania Aldi pagherà 0,09 euro in più al chilo per acquistare le banane, pari a 1,63 euro in più a scatola. L’accordo, raggiunto dal colosso tedesco dei discount e i grandi produttori di banane del Sudamerica, segue un lungo e aspro dibattito che qualcosa ha portato in casa dei produttori.
In Italia? Finora niente, eppure l’allarme è stato lanciato da Fruitimprese ai primi di dicembre.
Capisco che i bilanci delle catene vengono da un anno di uova d’oro, e infatti stanno aumentando le aperture, i nuovi format, i restyling, gli investimenti… per carità, tutto giusto, tutto bello. E infatti la comunicazione di settore è prodiga, generosa, benevola di attenzione verso quello che fa la GDO, verso la crescita esponenziale dei punti-vendita, delle novità, dell’innovazione nel reparto ortofrutta (tema cui si continua a dedicare focus, eventi, attenzione, analisi, come se non avessimo già sviscerato tutto il possibile sull’argomento). Ma – e lo diciamo sommessamente – un po’ più di attenzione alla produzione, a chi tutte le mattine apre bottega e si trova a fare i conti non solo con il Paese dalla burocrazia demenziale, con il cambiamento climatico, con il meteo impazzito e le bombe d’acqua, con nuovi e vecchi patogeni ma adesso anche con un aumento dei costi di produzione che non dipende da noi ma da fattori internazionali, da Putin, dall’Ucraina, dal gasdotto vattelapesca, dalla Cina o da Biden, questo no? La GDO, attraverso i suoi uomini-portavoce, sempre tanto coccolati, tanto vezzeggiati da certa informazione di settore, fa quasi sempre la lezioncina, la predica al mondo produttivo-commerciale: non siete organizzati, non programmate, non fate squadra… In molti casi le prediche, le critiche sono motivate, in altri casi sono pretestuose e servono solo come alibi per avere mani libere in manovre spericolate sui prezzi a scapito della produzione. E’ vero che non tutte le catene sono uguali e c’è chi è più spudorato e chi meno. Ma in questa fase in cui gli aumenti dei costi di produzione sono sotto gli occhi di tutti, sono certificati, non sarebbe il caso di smettere di fare ‘ammuina’ e sedersi a un tavolo e valutare (chi ci sta, ci sta) dove, come e quando ritoccare i prezzi pagati alla produzione? Senza fare di ogni erba un fascio ma valutando caso per caso, come hanno proposto le voci più responsabili del mondo produttivo privato e cooperativo?
Senza prezzi più alti per la produzione, le imprese del settore si vedranno costrette a scaricare le loro difficoltà a monte e a valle della filiera, coinvolgendo imballaggi, packaging, macchine e tecnologie, logistica e trasporti, servizi vari. Una crisi di sistema. E a quel punto, bye-bye made in Italy…
Lorenzo Frassoldati
direttore del Corriere Ortofrutticolo
l.frassoldati@alice.it
LA SPREMUTA DEL DIRETTORE
L'ASSAGGIO
Sfoglia ora l'Annuario 2024 di Protagonisti dell'ortofrutta italiana
Sfoglia ora l'ultimo numero della rivista!