Il VII Rapporto Agromafie e Caporalato, pubblicato da Flai-CGIL, analizza approfonditamente lo sfruttamento lavorativo, fenomeno strutturale e radicato nella filiera agroalimentare italiana, strettamente legato alla criminalità organizzata e aggravato dall’incapacità delle istituzioni di attuare un contrasto efficace, nonostante i proclami e le prese di posizione ufficiali.
Nel 2023, il settore agricolo italiano ha generato un valore economico di 73,5 miliardi di euro, impiegando quasi 900.000 lavoratori. Tuttavia, circa 200.000 di questi hanno lavorato in condizioni irregolari, e tra loro le donne costituiscono una fascia particolarmente vulnerabile, con circa 55.000 potenziali vittime di sfruttamento.
Anche il caporalato, nonostante i severi interventi normativi, rimane un problema significativo. Sebbene ufficialmente condannato, nella pratica è spesso lasciato persistere, interessando non solo le campagne del Sud ma anche le regioni del Centro e del Nord. In alcune situazioni, il fenomeno assume forme così gravi da ricordare la schiavitù.
Lo sfruttamento lavorativo, dice il rapporto Flai-CGIL, è presente su tutto il territorio nazionale. In Piemonte si contano tra 8.000 e 10.000 lavoratori irregolari, di cui 2.000 nella provincia di Asti. In Trentino-Alto Adige, oltre 6.000 persone operano senza regole tra agricoltura e macellazione. In Basilicata, più di 10.000 lavoratori in nero includono 5.000-7.000 avventizi e pendolari, alcuni dei quali, nella Val d’Agri, ricevono appena 400 euro al mese lavorando sette giorni su sette. Anche in Calabria la situazione è critica, con circa 12.000 lavoratori irregolari, tra cui 5.000 stagionali. La Sicilia e il Veneto emergono tra le regioni più colpite, con rispettivamente 52 e 44 aree problematiche.
I dati ufficiali spesso divergono da quelli riportati nel Rapporto. Secondo il Ministero dell’Economia e delle Finanze (2020), il 30% delle aziende utilizza manodopera in condizioni “grigie”, mentre il lavoro nero rappresenta il 10%. Tuttavia, dati più recenti dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (2023) indicano un tasso di irregolarità del 69,8%; nel settore agricolo, su 3.529 ispezioni, il 59,2% ha rivelato violazioni. Controlli straordinari, avviati dopo la tragica morte del bracciante indiano Satnam Singh, hanno mostrato tassi di irregolarità dal 66% al 53% in diverse operazioni.
Questa realtà evidenzia non solo il lavoro irregolare, ma anche una diffusa condizione di “povertà lavorativa”. I lavoratori regolari guadagnano mediamente 6.000 euro lordi all’anno, ben al di sotto della soglia di povertà. Anche combinando più impieghi, molti non superano i 12.000 euro lordi annui, dimostrando una precarietà economica sistemica.
A peggiorare il quadro contribuisce la fragilità economica delle imprese agricole. La pressione al ribasso sui prezzi dei prodotti alimentari, il divario tra prezzi alla produzione e distribuzione, e l’importazione di milioni di quintali di prodotti agricoli da paesi poveri a prezzi stracciati riducono i margini di profitto. La competizione globale spesso costringe i produttori a vendere a prezzi insostenibili, spingendoli a ricorrere al lavoro sottopagato come unica strategia di sopravvivenza. I cambiamenti climatici, come siccità e alluvioni, hanno aggravato ulteriormente la situazione, facendo aumentare i costi operativi del 30-40% negli ultimi cinque anni.
Si deve, tuttavia, rilevare con disappunto che, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, lo sfruttamento lavorativo non è confinato alle filiere meno redditizie, dice Flai-CGIL. Anche in settori altamente remunerativi, una quota significativa di lavoratori stagionali opera in condizioni di illegalità, spesso nascoste dietro contratti formali che mascherano precarietà e salari inadeguati. Questa realtà evidenzia come, al di là delle pressioni economiche del mercato, esista una precisa responsabilità individuale di quegli imprenditori che scelgono deliberatamente di violare i diritti dei lavoratori per massimizzare i propri profitti.
Per promuovere un cambiamento concreto e sostenibile, in linea con la strategia “Farm to Fork” dell’Unione Europea, sono necessarie politiche mirate a garantire una distribuzione più equa del valore lungo l’intera filiera agroalimentare. Diventa prioritario rafforzare i controlli per contrastare e prevenire pratiche sleali che penalizzano sia i produttori sia i lavoratori. Allo stesso tempo, si devono introdurre politiche che valorizzino il ruolo dei produttori, garantendo loro una remunerazione equa e trasparente lungo tutta la catena produttiva.
Per contrastare questo fenomeno, anche i consumatori possono fare la loro parte scegliendo prodotti certificati e sostenibili, supportando così le aziende che rispettano i diritti dei lavoratori. Attraverso scelte consapevoli, è possibile incoraggiare pratiche virtuose e contribuire a ridurre lo sfruttamento lungo la filiera agroalimentare.
Promuovere la cooperazione tra agricoltori e aziende può inoltre ridurre la pressione sui singoli produttori, offrendo loro una maggiore forza contrattuale nei confronti dei distributori e contribuendo a elevare gli standard di qualità. Parallelamente, è essenziale prevedere incentivi fiscali per le imprese che assumono personale regolarmente, creando un sistema premiale in grado di valorizzare le buone pratiche e incoraggiare comportamenti virtuosi. Questi interventi non solo migliorerebbero le condizioni economiche e lavorative, ma rafforzerebbero l’intero sistema agroalimentare, rendendolo più equo e sostenibile. Un altro elemento da considerare con particolare attenzione è il potenziamento degli strumenti di intermediazione legale tra domanda e offerta di lavoro, un aspetto che potrebbe ridurre significativamente il ricorso a canali irregolari o illegali, migliorando così le condizioni occupazionali di migliaia di lavoratori.
Infine, è fondamentale intensificare i controlli ispettivi sul territorio e migliorare l’efficienza degli strumenti esistenti, come le banche dati istituzionali e il Sistema informativo per la lotta al caporalato. Un monitoraggio rigoroso e una gestione ottimale di queste risorse sono indispensabili per combattere lo sfruttamento lavorativo e promuovere un modello agricolo più equo e sostenibile.
Gualtiero Roveda
avvocato, giornalista pubblicista
IL LAVORO IRREGOLARE NON È CONFINATO ALLE FILIERE MENO REDDITIZIE
Il VII Rapporto Agromafie e Caporalato, pubblicato da Flai-CGIL, analizza approfonditamente lo sfruttamento lavorativo, fenomeno strutturale e radicato nella filiera agroalimentare italiana, strettamente legato alla criminalità organizzata e aggravato dall’incapacità delle istituzioni di attuare un contrasto efficace, nonostante i proclami e le prese di posizione ufficiali.
Nel 2023, il settore agricolo italiano ha generato un valore economico di 73,5 miliardi di euro, impiegando quasi 900.000 lavoratori. Tuttavia, circa 200.000 di questi hanno lavorato in condizioni irregolari, e tra loro le donne costituiscono una fascia particolarmente vulnerabile, con circa 55.000 potenziali vittime di sfruttamento.
Anche il caporalato, nonostante i severi interventi normativi, rimane un problema significativo. Sebbene ufficialmente condannato, nella pratica è spesso lasciato persistere, interessando non solo le campagne del Sud ma anche le regioni del Centro e del Nord. In alcune situazioni, il fenomeno assume forme così gravi da ricordare la schiavitù.
Lo sfruttamento lavorativo, dice il rapporto Flai-CGIL, è presente su tutto il territorio nazionale. In Piemonte si contano tra 8.000 e 10.000 lavoratori irregolari, di cui 2.000 nella provincia di Asti. In Trentino-Alto Adige, oltre 6.000 persone operano senza regole tra agricoltura e macellazione. In Basilicata, più di 10.000 lavoratori in nero includono 5.000-7.000 avventizi e pendolari, alcuni dei quali, nella Val d’Agri, ricevono appena 400 euro al mese lavorando sette giorni su sette. Anche in Calabria la situazione è critica, con circa 12.000 lavoratori irregolari, tra cui 5.000 stagionali. La Sicilia e il Veneto emergono tra le regioni più colpite, con rispettivamente 52 e 44 aree problematiche.
I dati ufficiali spesso divergono da quelli riportati nel Rapporto. Secondo il Ministero dell’Economia e delle Finanze (2020), il 30% delle aziende utilizza manodopera in condizioni “grigie”, mentre il lavoro nero rappresenta il 10%. Tuttavia, dati più recenti dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (2023) indicano un tasso di irregolarità del 69,8%; nel settore agricolo, su 3.529 ispezioni, il 59,2% ha rivelato violazioni. Controlli straordinari, avviati dopo la tragica morte del bracciante indiano Satnam Singh, hanno mostrato tassi di irregolarità dal 66% al 53% in diverse operazioni.
Questa realtà evidenzia non solo il lavoro irregolare, ma anche una diffusa condizione di “povertà lavorativa”. I lavoratori regolari guadagnano mediamente 6.000 euro lordi all’anno, ben al di sotto della soglia di povertà. Anche combinando più impieghi, molti non superano i 12.000 euro lordi annui, dimostrando una precarietà economica sistemica.
A peggiorare il quadro contribuisce la fragilità economica delle imprese agricole. La pressione al ribasso sui prezzi dei prodotti alimentari, il divario tra prezzi alla produzione e distribuzione, e l’importazione di milioni di quintali di prodotti agricoli da paesi poveri a prezzi stracciati riducono i margini di profitto. La competizione globale spesso costringe i produttori a vendere a prezzi insostenibili, spingendoli a ricorrere al lavoro sottopagato come unica strategia di sopravvivenza. I cambiamenti climatici, come siccità e alluvioni, hanno aggravato ulteriormente la situazione, facendo aumentare i costi operativi del 30-40% negli ultimi cinque anni.
Si deve, tuttavia, rilevare con disappunto che, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, lo sfruttamento lavorativo non è confinato alle filiere meno redditizie, dice Flai-CGIL. Anche in settori altamente remunerativi, una quota significativa di lavoratori stagionali opera in condizioni di illegalità, spesso nascoste dietro contratti formali che mascherano precarietà e salari inadeguati. Questa realtà evidenzia come, al di là delle pressioni economiche del mercato, esista una precisa responsabilità individuale di quegli imprenditori che scelgono deliberatamente di violare i diritti dei lavoratori per massimizzare i propri profitti.
Per promuovere un cambiamento concreto e sostenibile, in linea con la strategia “Farm to Fork” dell’Unione Europea, sono necessarie politiche mirate a garantire una distribuzione più equa del valore lungo l’intera filiera agroalimentare. Diventa prioritario rafforzare i controlli per contrastare e prevenire pratiche sleali che penalizzano sia i produttori sia i lavoratori. Allo stesso tempo, si devono introdurre politiche che valorizzino il ruolo dei produttori, garantendo loro una remunerazione equa e trasparente lungo tutta la catena produttiva.
Per contrastare questo fenomeno, anche i consumatori possono fare la loro parte scegliendo prodotti certificati e sostenibili, supportando così le aziende che rispettano i diritti dei lavoratori. Attraverso scelte consapevoli, è possibile incoraggiare pratiche virtuose e contribuire a ridurre lo sfruttamento lungo la filiera agroalimentare.
Promuovere la cooperazione tra agricoltori e aziende può inoltre ridurre la pressione sui singoli produttori, offrendo loro una maggiore forza contrattuale nei confronti dei distributori e contribuendo a elevare gli standard di qualità. Parallelamente, è essenziale prevedere incentivi fiscali per le imprese che assumono personale regolarmente, creando un sistema premiale in grado di valorizzare le buone pratiche e incoraggiare comportamenti virtuosi. Questi interventi non solo migliorerebbero le condizioni economiche e lavorative, ma rafforzerebbero l’intero sistema agroalimentare, rendendolo più equo e sostenibile. Un altro elemento da considerare con particolare attenzione è il potenziamento degli strumenti di intermediazione legale tra domanda e offerta di lavoro, un aspetto che potrebbe ridurre significativamente il ricorso a canali irregolari o illegali, migliorando così le condizioni occupazionali di migliaia di lavoratori.
Infine, è fondamentale intensificare i controlli ispettivi sul territorio e migliorare l’efficienza degli strumenti esistenti, come le banche dati istituzionali e il Sistema informativo per la lotta al caporalato. Un monitoraggio rigoroso e una gestione ottimale di queste risorse sono indispensabili per combattere lo sfruttamento lavorativo e promuovere un modello agricolo più equo e sostenibile.
Gualtiero Roveda
avvocato, giornalista pubblicista
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