Temperature in salita su tutto il pianeta e in maniera più accentuata nel bacino del Mediterraneo dove si assiste a inverni più miti ed estati sempre più torride. Cambia il clima e in Sicilia ci si interroga su quale piega prenderà l’agricoltura del futuro e a quali produzioni si dovrà rinunciare per fare posto a specie più resilienti e adatte alle nuove vocazionalità.
Davvero i cambiamenti climatici a cui stiamo assistendo nel Mediterraneo possono determinare la diffusione nell’Italia meridionale delle coltivazioni di frutti tropicali? A sentire gli esperti, non basta che le temperature medie annue si innalzino e che le minime invernali siano più contenute. Se questo si combina con la concomitante maggiore frequenza delle piogge, allora sì che si può rischiare di investire sulle colture tropicali. Diversamente la strada è in salita: per ottenere produzioni abbondanti serve, infatti, tanta acqua.
Ci sono, poi, altri fattori climatici che al momento divergono rispetto alle esigenze dei frutti tropicali. Per gran parte dei frutti tropicali è difficile produrre in presenza di ampie e repentine escursioni termiche tra giorno e notte. Ci sono specie che fruttificano solo se coltivate in areali con temperature mediamente elevate come la papaya a cui servono temperature comprese tra 18 e 36 gradi. Per questo la sua coltivazione, anche in Sicilia, non è possibile en plein air ed è limitata all’interno delle serre fredde. Altre temono le basse temperature e il vento. È il caso del mango che deve essere protetto da frangivento e reti. Sotto i 15 °C il mango blocca qualunque attività vegeto-produttiva, sotto 0 °C si verificano danni nei giovani germogli e a temperatura di -6 °C si verifica la morte degli alberi adulti.
Maggiore diffusione in Sicilia caratterizza l’avocado, la specie più plastica ma che dà il meglio di sé in habitat particolari come quelli della Sicilia orientale alle falde del vulcano attivo più alto d’Europa, l’Etna.
“Dalle nostre parti – afferma un produttore etneo – la produttività oscilla tra 180 e 240 quintali per ettaro. In altri areali della Sicilia e della Calabria le rese possono precipitare a 30-40 quintali ad ettaro”. Il motivo? In realtà l’insuccesso della coltura tropicale è sempre dovuto al fatto che non prima della sua introduzione non si è preceduto ad uno scrupoloso e attento studio di fattibilità agronomica ed economica. Così spesso non vengono valutati attentamente tutti i fattori che limitano questo tipo di coltura. Il primo errore consiste la sottovalutazione dei parametri climatici. Il secondo è la mancata verifica della granulometria del terreno: servono suoli sciolti dove non si verificano ristagni idrici che facilitano lo sviluppo dei funghi patogeni. In particolare l’avocado è particolarmente sensibile alla Phytophthora cinnammomi, agente del marciume radicale.

“Per questo motivo sono da evitare suoli a prevalenza argillosa e da preferire quelli sciolti, tendenzialmente sabbiosi, con una predilezione per terreni subacidi, ricchi in sostanza organica”, spiega Vittorio Farina, docente di frutticoltura tropicale e subtropicale all’Università di Palermo. La pianta è, inoltre, particolarmente sensibile ai suoli salini e ricchi in carbonato in quanto possono determinare effetti negativi sulle sue performance vegeto-produttive. Sensibilità che condivide con il mango. E poi non bisogna dimenticare che tutte le colture tropicali necessitano di tanta acqua. All’avocado ogni anno ne serve una quantità compresa tra 7 mila e 12 mila metri cubi per ettaro (in funzione delle temperature stagionali), concentrata nei mesi primaverili ed estivi. Per questo in Sicilia la coltura può limitarsi solo agli areali ricchi di risorse idriche. Non a caso la maggior parte degli impianti è concentrato alle pendici dell’Etna e dei monti Nebrodi. Non diverse le esigenze del mango per il quale si aggiunge anche il consumo idrico per la microclimatizzazione che ha il compito di aumentare nella zona della chioma l’umidità relativa del sistema. Così, si cerca di ricreare la condizione micro-climatica della pianta del suo areale geografico originario.
Coltivazione di frutta tropicale: la Spagna rimane il punto di riferimento in Europa
Non ci sono statistiche sulle colture tropicali siciliane. Secondo i più informati – produttori più dinamici che si occupano della commercializzazione anche per conto di altre aziende – la superficie coperta dai fruttuferi tropicali oscilla tra 300 e 400 ettari. Ben poca cosa rispetto alla Spagna che, grazie alla rodata organizzazione produttiva e commerciale con i suoi 11 mila ettari rappresenta il più importante riferimento in Europa. La Spagna, a differenza della Sicilia dove si va a ranghi sparsi, ha definito il suo miglior areale per queste colture: la Costa del Sol.
Siciliano o spagnolo che sia, il mercato europeo premia il tropicale di qualità più “local” e a “basso impatto”. In Sicilia, riferisce Farina, gli impianti vengono gestiti in modo da garantire le buone pratiche agronomiche riducendo il ricorso a pesticidi e ad altri interventi chimici. Molto spesso in Sicilia, poi, vengono adottate tecniche di agricoltura biologica e il prodotto certificato viene immesso con successo nel circuito specializzato.
Ma il basso impatto dei tropicali siciliani si manifesta anche sui trasporti, cosa che poi si riverbera sulla qualità. A differenza di quelli importati, non devono percorrere lunghi tragitti per arrivare al consumatore finale. Così l’avocado viene raccolto quando completa la sua evoluzione in termini di inolizione e raggiunge il miglior profilo degli acidi grassi. Analogo discorso per il mango i cui frutti si raccolgono maturati sulla pianta (ripe on tree). E quindi con aromi e zuccheri solubili in elevate percentuali e tali da assicurare una speciale esperienza di consumo molto simile a quella che si può fare nei territori di origine della specie.
A prodotti di qualità corrispondono, ovviamente, prezzi elevati che danno soddisfazione ai produttori, sia nel caso di produzioni veicolate attraverso le piattaforme commerciali sia – a maggior ragione – attraverso la vendita diretta tramite e-commerce. Con il prodotto biologico, poi, è davvero un bel business.
Angela Sciortino