NON C’È SOLO L’EMERGENZA CIMICE, C’È ANCHE L’ALLARME EXPORT. LA CRISI È DI SISTEMA. LA POLITICA CHIEDA ALLA GDO DI COMPRARE PIÙ PRODOTTO ITALIANO

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Ottanta milioni di euro in tre anni, cioè neppure 30 milioni all’anno, sono meglio di niente, ma non bastano. CSO Italy ha quantificato danni da cimice e altre fitopatie su pere, pesche e nettarine nel Nord Italia per oltre 365 milioni di euro, dalla produzione fino a tutta la fase di post raccolta. Con un danno occupazionale stimato in quasi 486.000 giornate/uomo.
Ne è consapevole anche la ministra Bellanova che non a caso a Ferrara, dopo l’incontro sull’emergenza cimice asiatica,  ha annunciato un pacchetto di misure da mettere a punto con le forze politiche, le Regioni, ABI, Asnacodi, ISMEA per reperire altri fondi, sospendere i mutui bancari, individuare nuovi strumenti per la gestione dei rischi in agricoltura. E poi bisogna batter cassa a Bruxelles dove l’attivismo di AREFLH (e della sua presidente Simona Caselli) ha aperto la porta verso misure straordinarie.
Tra cambiamento climatico, cimice asiatica e altre parassitosi, piove sul bagnato. Perché quel termometro che misura lo stato di salute del settore che è l’interscambio con l’estero ci ha consegnato per i primi 7 mesi del 2019 dati più che allarmanti. Mesi fa scrivevamo che sul fronte export ci stavamo giocando l’internazionalizzazione del settore. Adesso arriva la conferma. Fruitimprese segnala che l’Italia si sta lentamente avviando a diventare un Paese importatore netto di ortofrutta. Importiamo più prodotti sia in quantità (2,2 milioni di tonnellate contro 2 milioni/tons di export) che in valore: l’import (2.458.823 milioni di euro) supera di poco l’export (2.446.738 milioni di euro). La conseguenza di questo sbilancio commerciale con l’estero è che, dopo il sorpasso nei volumi registrato nei mesi scorsi, nel periodo in esame si è avuto per la prima volta un saldo della bilancia commerciale negativo per 12 milioni di euro. In sostanza: ci stiamo giocando il secondo comparto del nostro export agroalimentare, il primo se consideriamo anche il trasformato. Ce lo possiamo permettere? Certo che no.
Bisogna tornare subito al Tavolo nazionale dove affrontare le priorità del settore che si riassumono in due imperativi: aprire i mercati esteri adesso chiusi, e affrontare il nodo della competitività delle imprese (costo del lavoro, energia, burocrazia ecc). Nella consapevolezza che siamo in ritardo su tutto. Che l’apertura dei mercati non si fa in una settimana e neanche in un mese; che ridare competitività alle imprese implica misure di più ampio respiro di cui non c’è traccia nella Finanziaria 2020 (su cui si sta litigando anche dentro la maggioranza giallorossa).
Una cosa però si può fare subito. C’è un convitato di pietra al Tavolo dell’ortofrutta italiana. E’ la GDO, uno scacchiere che sta vedendo una sfida epocale tra le catene italiane (Conad che con il controllo di Auchan ha superato Coop e insidia il primo della classe Esselunga) e tra le catene italiane e quelle straniere (Lidl in primis, poi Aldi, ma anche gli hard discount come Eurospin, Penny Market, MD, Leader Price). Le catene, con cui il mondo produttivo ha un rapporto spesso di vittima-carnefice, ma che al tempo stesso sono la più grande agenzia di vendita della nostra ortofrutta, non si possono chiamare fuori da questa crisi di sistema, non possono stare a guardare. Deve intervenire la politica, le istituzioni che hanno il dovere morale di dire alla GDO italiana e straniera: comprate italiano, comprate più italiano. E vedere chi risponde “presente!” a questo appello.
Poi la politica ha un altro dovere: quello di sostenere davvero l’internazionalizzazione delle imprese, non solo a chiacchiere. In Spagna, Polonia, Cile  vanno i primi ministri (o persino gli ex presidenti della Repubblica)  a trattare all’estero i dossier per aprire nuovi mercati. Da noi trattano i funzionari, e infatti combiniamo poco o niente. E i dossier si trascinano per anni.
Ultima riflessione: stiamo toccando con mano cosa significa per noi l’export. Se da oggi al domani decidessimo di consumare noi tutta l’ortofrutta che produciamo, di riversarla sul mercato interno (ipotesi solo teorica, che piacerebbe però ai fautori dell’autarchia produttiva, del protezionismo a tutti i costi, delle frontiere chiuse) la prima conseguenza è che ci sarebbe un eccesso di offerta con conseguente crollo dei prezzi. A meno di non finanziare con soldi pubblici un gigantesco piano di abbattimento dei frutteti per mettere in equilibrio domanda e offerta; e magari sostenere sempre con soldi pubblici un livello di prezzo minimo per i produttori. Tutte ipotesi che ci porterebbero ovviamente fuori dell’Europa e dal libero mercato. Però chissà che qualche apprendista stregone non ci stia pensando. In fin dei conti stiamo continuando a mantenere l’Alitalia e tanti altri baracconi statalisti…
Lorenzo Frassoldati
direttore del Corriere Ortofrutticolo 
l.frassoldati@alice.it 

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