Il popolare programma televisivo Piazzapulita su La7 nel corso del servizio “Vendemmia all’italiana” ha reso pubblici inaccettabili casi di sfruttamento della manodopera. Il reportage è stato girato in Veneto, nei vigneti della Valpolicella e in un’azienda di Belfiore fornitrice, tra gli altri, di un noto gruppo della grande distribuzione e debitamente certificata con uno standard volontario internazionale che attesta l’osservanza di buone pratiche sociali.
I dati dell’Osservatorio Placido Rizzotto evidenziano che la geografia del nuovo caporalato si sposta nei campi del Nord. In Italia sono 405 i distretti in cui si registra il fenomeno nell’ambito del settore agricolo. Un terzo di questi luoghi si trova nel Nord Italia. Lo sfruttamento della manovalanza è gestito e programmato da organizzazioni che agiscono in forma criminale attuando pratiche, anche sofisticate, di sfruttamento. Un recente rapporto dell’Associazione ambientalista Terra!, dal titolo Cibo e sfruttamento – Made in Lombardia, ha preso in esame tre filiere lombarde (meloni, insalate e allevamenti di suini) e denunciato una drammatica realtà. Il gruppo di ricerca dell’Associazione, dopo mesi di inchiesta sul campo, ha tratteggiato un quadro molto negativo della situazione. Lo sfruttamento del lavoro, pur cambiando nelle forme e nelle modalità, è una componente dell’economia agricola, per quanto molti operatori intervistati abbiano faticato a definirlo tale.
Dopo l’approvazione nel 2016 della c.d. legge anti-caporalato, il sistema dello sfruttamento ha iniziato a manifestarsi in forme nuove e complesse. Il fenomeno ha assunto la forma di cooperative, imprese e intermediari che apparentemente operano all’interno di un contesto legale, ma spesso forniscono manodopera senza rispettare gli accordi contrattuali e le norme collettive nazionali.
Molto diffuso è anche il lavoro grigio basato su un tacito — e spesso obbligato — accordo tra datore di lavoro e lavoratore: l’imprenditore agricolo assicura un impiego continuativo durante tutto l’anno, ma non registra più di 180 giornate, il numero richiesto per accedere alla disoccupazione agricola. Questo gli consente di pagare contributi inferiori e sottoporre il lavoratore a una condizione di dipendenza. Quest’ultimo potrà accedere agli ammortizzatori sociali grazie al numero di giornate registrate che, tuttavia, spesso è molto inferiore al dato reale. Le giornate non formalizzate vengono retribuite in nero. Alla fine dell’anno, il salario totale del bracciante è il risultato di tre componenti: le giornate segnate in busta paga, il pagamento in nero e la disoccupazione agricola. Nel lavoro grigio possono essere declinate diverse modalità operative. Una di queste prevede che i lavoratori restituiscano una parte delle somme regolarmente corrisposte in base a quanto riportato dal cedolino paga. Ricevuto l’accredito tramite bonifico bancario, il lavoratore è costretto a prelevare e consegnare in contanti all’imprenditore agricolo una somma che, mediamente, si aggira secondo l’indagine dell’Associazione sui 400 euro.
Sempre secondo detta indagine, una delle principali cause del problema è la remunerazione inadeguata del prodotto, spesso pagato meno del suo reale valore dalle catene della Grande distribuzione organizzata (GDO). Questa situazione colpisce soprattutto le imprese agricole, che subiscono una diminuzione dei ricavi e, di conseguenza, sono costrette a comprimere i costi e, come è noto, in agricoltura quello del personale è in assoluto il costo più flessibile.
In una filiera caratterizzata da una distribuzione inefficace delle risorse, si creano le condizioni per le quali i costi aggiuntivi che si generano lungo la catena di produzione e distribuzione dei beni a causa di inefficienza, incompetenza, errori e ritardi, siano trasferiti sulle parti deboli dei rapporti contrattuali. Questa situazione genera una competizione al ribasso dei prezzi, con conseguente diminuzione della qualità dei prodotti offerti ai consumatori. Inoltre, si causa un deterioramento del processo produttivo, che a sua volta incentiva pratiche insostenibili e lo sfruttamento del lavoro.
Il fenomeno non è solo italiano. È questa una delle ragioni per cui il legislatore europeo è intervenuto con la c.d. “Direttiva UTP” (Unfair Trading Practices Directive), in materia di pratiche commerciali sleali nei rapporti tra imprese nella filiera agricola e alimentare, recepita dal nostro Paese con il D.lgs. n. 198/2021.
OLTRE AL LAVORO NERO C’È QUELLO GRIGIO. E L’INSUFFICIENTE REMUNERAZIONE DEL PRODOTTO ALIMENTA L’ILLEGALITÀ
Di Gualtiero Roveda
Il popolare programma televisivo Piazzapulita su La7 nel corso del servizio “Vendemmia all’italiana” ha reso pubblici inaccettabili casi di sfruttamento della manodopera. Il reportage è stato girato in Veneto, nei vigneti della Valpolicella e in un’azienda di Belfiore fornitrice, tra gli altri, di un noto gruppo della grande distribuzione e debitamente certificata con uno standard volontario internazionale che attesta l’osservanza di buone pratiche sociali.
I dati dell’Osservatorio Placido Rizzotto evidenziano che la geografia del nuovo caporalato si sposta nei campi del Nord. In Italia sono 405 i distretti in cui si registra il fenomeno nell’ambito del settore agricolo. Un terzo di questi luoghi si trova nel Nord Italia. Lo sfruttamento della manovalanza è gestito e programmato da organizzazioni che agiscono in forma criminale attuando pratiche, anche sofisticate, di sfruttamento. Un recente rapporto dell’Associazione ambientalista Terra!, dal titolo Cibo e sfruttamento – Made in Lombardia, ha preso in esame tre filiere lombarde (meloni, insalate e allevamenti di suini) e denunciato una drammatica realtà. Il gruppo di ricerca dell’Associazione, dopo mesi di inchiesta sul campo, ha tratteggiato un quadro molto negativo della situazione. Lo sfruttamento del lavoro, pur cambiando nelle forme e nelle modalità, è una componente dell’economia agricola, per quanto molti operatori intervistati abbiano faticato a definirlo tale.
Dopo l’approvazione nel 2016 della c.d. legge anti-caporalato, il sistema dello sfruttamento ha iniziato a manifestarsi in forme nuove e complesse. Il fenomeno ha assunto la forma di cooperative, imprese e intermediari che apparentemente operano all’interno di un contesto legale, ma spesso forniscono manodopera senza rispettare gli accordi contrattuali e le norme collettive nazionali.
Molto diffuso è anche il lavoro grigio basato su un tacito — e spesso obbligato — accordo tra datore di lavoro e lavoratore: l’imprenditore agricolo assicura un impiego continuativo durante tutto l’anno, ma non registra più di 180 giornate, il numero richiesto per accedere alla disoccupazione agricola. Questo gli consente di pagare contributi inferiori e sottoporre il lavoratore a una condizione di dipendenza. Quest’ultimo potrà accedere agli ammortizzatori sociali grazie al numero di giornate registrate che, tuttavia, spesso è molto inferiore al dato reale. Le giornate non formalizzate vengono retribuite in nero. Alla fine dell’anno, il salario totale del bracciante è il risultato di tre componenti: le giornate segnate in busta paga, il pagamento in nero e la disoccupazione agricola. Nel lavoro grigio possono essere declinate diverse modalità operative. Una di queste prevede che i lavoratori restituiscano una parte delle somme regolarmente corrisposte in base a quanto riportato dal cedolino paga. Ricevuto l’accredito tramite bonifico bancario, il lavoratore è costretto a prelevare e consegnare in contanti all’imprenditore agricolo una somma che, mediamente, si aggira secondo l’indagine dell’Associazione sui 400 euro.
Sempre secondo detta indagine, una delle principali cause del problema è la remunerazione inadeguata del prodotto, spesso pagato meno del suo reale valore dalle catene della Grande distribuzione organizzata (GDO). Questa situazione colpisce soprattutto le imprese agricole, che subiscono una diminuzione dei ricavi e, di conseguenza, sono costrette a comprimere i costi e, come è noto, in agricoltura quello del personale è in assoluto il costo più flessibile.
In una filiera caratterizzata da una distribuzione inefficace delle risorse, si creano le condizioni per le quali i costi aggiuntivi che si generano lungo la catena di produzione e distribuzione dei beni a causa di inefficienza, incompetenza, errori e ritardi, siano trasferiti sulle parti deboli dei rapporti contrattuali. Questa situazione genera una competizione al ribasso dei prezzi, con conseguente diminuzione della qualità dei prodotti offerti ai consumatori. Inoltre, si causa un deterioramento del processo produttivo, che a sua volta incentiva pratiche insostenibili e lo sfruttamento del lavoro.
Il fenomeno non è solo italiano. È questa una delle ragioni per cui il legislatore europeo è intervenuto con la c.d. “Direttiva UTP” (Unfair Trading Practices Directive), in materia di pratiche commerciali sleali nei rapporti tra imprese nella filiera agricola e alimentare, recepita dal nostro Paese con il D.lgs. n. 198/2021.
*avvocato, giornalista pubblicista
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