“FreshPlaza” del 28 maggio riportava una intervista all’avvocato Roveda con il titolo “La burocrazia ha affossato l’Articolo 62 e le Pratiche sleali”. Roveda, che più volte è intervenuto sul tema, esprimeva una certa sfiducia sulla possibilità che il recepimento della direttiva sulle pratiche sleali possa recuperare l’insuccesso dell’art. 62. Stimolato da questa interessante intervista ho cercato di sapere a che punto è il recepimento della famosa direttiva di Paolo De Castro, di cui da un po’ di tempo non si parla più, anche perché il Covid-19 ha imposto ben altre priorità.
Al momento, il recepimento della Direttiva UE 2019/633 è affidato all’art. 7 della proposta di legge delega per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’UE formata da 20 articoli e comunicata dal Consiglio dei Ministri alla Presidenza del Senato il 14 febbraio 2020. Quindi, il recepimento della direttiva avverrà, dopo l’approvazione della legge delega, con un decreto legislativo che dovrebbe rispettare il termine di scadenza del 1 maggio 2021 per l’adozione e la pubblicazione delle disposizioni legislative e del 1 novembre 2021 per l’applicazione delle stesse da parte dei Paesi Membri. Per ora, stiamo rispettando i termini fissati dalla Commissione, anche se il problema delle pratiche commerciali sleali nei rapporti tra imprese delle filiere agroalimentari merita un intervento urgente ed efficace.
Ha ragione l’avv. Roveda, l’art. 62 che non prevedeva solo la stesura scritta dei contratti di compravendita e termini di pagamento fissi per i prodotti deperibili e alimentari, ma anche il divieto di alcune pratiche commerciali sleali, distintamente elencate nel successivo D.M. di applicazione, è servito a poco, per non dire a niente, se in otto anni solo tre procedure sono state avviate dall’Autorità Antitrust per accertare la presenza di tali pratiche.
Il recepimento della direttiva
Il testo dell’art. 7 del disegno di legge delega dovrebbe costituire, quindi, il quadro di rifermento del decreto legislativo da emanare per recepire la direttiva. L’articolo è composto da un solo comma articolato in più punti. Mentre i punti (a), (b), (c), (d) prevedono il rafforzamento dell’art. 62 e confermano la forma scritta dei contratti di cessione dei prodotti agricoli e alimentari, il punto (e) inserisce tra le pratiche commerciali sleali, e pertanto vietate, le gare a doppio ribasso (finalmente!) e il punto (f) introduce sanzioni proporzionate e dissuasive fino a un massimo del 10% del fatturato nell’ultimo esercizio del responsabile di tali pratiche. Da sottolineare, che in forza delle norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa UE (L. n. 234/2012), il decreto legislativo avrà come quadro di riferimento e limite anche le disposizioni della direttiva. Proprio nell’art. 1 è scritto che essa definisce “…..un elenco minimo di pratiche commerciali sleali vietate nelle relazioni tra acquirenti e fornitori e stabilisce norme minime concernenti l’applicazione di tali divieti..”, per cui la normativa di recepimento avrà ampio spazio per prevedere interventi diretti a rendere il più efficace possibile il provvedimento in relazione alle specificità delle situazioni di ogni Stato membro.
Come l’esperienza insegna è molto difficile per lo Stato intervenire per regolare il funzionamento di un mercato di libera concorrenza dove i rapporti tra le parti sono basati sul principio della autonomia contrattuale (art. 1322 c.c.), sia pure nei limiti imposti dalla legge a tutela del contraente più debole. In molti casi, infatti, la parte più forte riesce a portare alle clausole contrattuali correzioni, senza scendere a livello del dolo, che riescono ad aggirare il divieto normativo. Ma a parte questo aspetto, non certamente commendevole, l’insuccesso dell’art. 62 è da imputare, a mio avviso, all’effetto controproducente che può avere la denuncia all’Autorità Antitrust del comportamento scorretto dell’acquirente da parte del fornitore. L’incertezza del buon fine della denuncia, la durata del contenzioso e, soprattutto, l’interruzione di ogni rapporto con il cliente, conseguenza automatica dell’avvio della procedura, sono gli aspetti che quasi sempre scoraggiano il fornitore a denunciare la pratica sleale di cui è stato vittima. L’art. 62, comma 8, prevedeva che l’accertamento delle violazioni potesse avvenire d’ufficio da parte dell’Autorità Antitrust o su “segnalazione di qualunque soggetto interessato”, intendendo tra questi sia la persona offesa o l’organizzazione che la rappresenta. Delle tre procedure avviate di fronte alla nostra Autorità Antitrust soltanto due sono state promosse da associazioni rappresentative degli interessi dei denuncianti, una direttamente da parte dell’interessato e mai d’ufficio dall’Autorità Antitrust. L’art. 5, “Denunce e riservatezza”, della direttiva dispone che gli Stati membri debbano provvedere, qualora il denunciante lo richieda, a tutelare l’identità del denunciante o delle organizzazioni che lo rappresentano, qualora la divulgazione sia lesiva dei suoi interessi. Vedremo come questa disposizione verrà recepita dal decreto legislativo di attuazione, tuttavia temo che sia molto difficile garantire l’anonimato del denunciante, dato che il fatto da accertare permetterà, comunque, di risalire al responsabile dell’azione. Forse bisognerà che il decreto si preoccupi di fornire veramente i mezzi necessari all’Autorità Antitrust per intervenire d’ufficio o che aggiunga altre “Autorità di contrasto”, come potrebbe essere l’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari (ICQRF) del MIPAAF, sempre che venga adeguatamente riorientato, proposto anche da De Castro, o prevedere la possibilità di denuncia per via giurisdizionale.
E’ indubbio che la direttiva e il decreto legislativo che la recepirà avranno un effetto dissuasivo su possibili pratiche sleali della parte più forte, perché le pesanti sanzioni aumentano il rischio del costo che ne potrebbe derivare per il responsabile. Ma non basta!
Per ultimo, forse sarebbe meglio agire prima per evitare l’adozione di pratiche commerciali sleali, ad esempio fornendo ad acquirenti e fornitori dei contratti-tipo promossi e approvati da organizzazioni interprofessionali rappresentative del comparto, e possibilmente sanzionati a livello ministeriale. Ma questa è un’altra storia, che ripropone il tema, irrisolto, dell’organizzazione del nostro sistema agroalimentare.
Corrado Giacomini
Economista, Comitato di indirizzo del Corriere Ortofrutticolo
PRATICHE SLEALI, QUEL PASTICCIACCIO DELL’ART.62. QUALCHE CONSIGLIO PER EVITARE L’ENNESIMO FALLIMENTO
“FreshPlaza” del 28 maggio riportava una intervista all’avvocato Roveda con il titolo “La burocrazia ha affossato l’Articolo 62 e le Pratiche sleali”. Roveda, che più volte è intervenuto sul tema, esprimeva una certa sfiducia sulla possibilità che il recepimento della direttiva sulle pratiche sleali possa recuperare l’insuccesso dell’art. 62. Stimolato da questa interessante intervista ho cercato di sapere a che punto è il recepimento della famosa direttiva di Paolo De Castro, di cui da un po’ di tempo non si parla più, anche perché il Covid-19 ha imposto ben altre priorità.
Al momento, il recepimento della Direttiva UE 2019/633 è affidato all’art. 7 della proposta di legge delega per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’UE formata da 20 articoli e comunicata dal Consiglio dei Ministri alla Presidenza del Senato il 14 febbraio 2020. Quindi, il recepimento della direttiva avverrà, dopo l’approvazione della legge delega, con un decreto legislativo che dovrebbe rispettare il termine di scadenza del 1 maggio 2021 per l’adozione e la pubblicazione delle disposizioni legislative e del 1 novembre 2021 per l’applicazione delle stesse da parte dei Paesi Membri. Per ora, stiamo rispettando i termini fissati dalla Commissione, anche se il problema delle pratiche commerciali sleali nei rapporti tra imprese delle filiere agroalimentari merita un intervento urgente ed efficace.
Ha ragione l’avv. Roveda, l’art. 62 che non prevedeva solo la stesura scritta dei contratti di compravendita e termini di pagamento fissi per i prodotti deperibili e alimentari, ma anche il divieto di alcune pratiche commerciali sleali, distintamente elencate nel successivo D.M. di applicazione, è servito a poco, per non dire a niente, se in otto anni solo tre procedure sono state avviate dall’Autorità Antitrust per accertare la presenza di tali pratiche.
Il recepimento della direttiva
Il testo dell’art. 7 del disegno di legge delega dovrebbe costituire, quindi, il quadro di rifermento del decreto legislativo da emanare per recepire la direttiva. L’articolo è composto da un solo comma articolato in più punti. Mentre i punti (a), (b), (c), (d) prevedono il rafforzamento dell’art. 62 e confermano la forma scritta dei contratti di cessione dei prodotti agricoli e alimentari, il punto (e) inserisce tra le pratiche commerciali sleali, e pertanto vietate, le gare a doppio ribasso (finalmente!) e il punto (f) introduce sanzioni proporzionate e dissuasive fino a un massimo del 10% del fatturato nell’ultimo esercizio del responsabile di tali pratiche. Da sottolineare, che in forza delle norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa UE (L. n. 234/2012), il decreto legislativo avrà come quadro di riferimento e limite anche le disposizioni della direttiva. Proprio nell’art. 1 è scritto che essa definisce “…..un elenco minimo di pratiche commerciali sleali vietate nelle relazioni tra acquirenti e fornitori e stabilisce norme minime concernenti l’applicazione di tali divieti..”, per cui la normativa di recepimento avrà ampio spazio per prevedere interventi diretti a rendere il più efficace possibile il provvedimento in relazione alle specificità delle situazioni di ogni Stato membro.
Come l’esperienza insegna è molto difficile per lo Stato intervenire per regolare il funzionamento di un mercato di libera concorrenza dove i rapporti tra le parti sono basati sul principio della autonomia contrattuale (art. 1322 c.c.), sia pure nei limiti imposti dalla legge a tutela del contraente più debole. In molti casi, infatti, la parte più forte riesce a portare alle clausole contrattuali correzioni, senza scendere a livello del dolo, che riescono ad aggirare il divieto normativo. Ma a parte questo aspetto, non certamente commendevole, l’insuccesso dell’art. 62 è da imputare, a mio avviso, all’effetto controproducente che può avere la denuncia all’Autorità Antitrust del comportamento scorretto dell’acquirente da parte del fornitore. L’incertezza del buon fine della denuncia, la durata del contenzioso e, soprattutto, l’interruzione di ogni rapporto con il cliente, conseguenza automatica dell’avvio della procedura, sono gli aspetti che quasi sempre scoraggiano il fornitore a denunciare la pratica sleale di cui è stato vittima. L’art. 62, comma 8, prevedeva che l’accertamento delle violazioni potesse avvenire d’ufficio da parte dell’Autorità Antitrust o su “segnalazione di qualunque soggetto interessato”, intendendo tra questi sia la persona offesa o l’organizzazione che la rappresenta. Delle tre procedure avviate di fronte alla nostra Autorità Antitrust soltanto due sono state promosse da associazioni rappresentative degli interessi dei denuncianti, una direttamente da parte dell’interessato e mai d’ufficio dall’Autorità Antitrust. L’art. 5, “Denunce e riservatezza”, della direttiva dispone che gli Stati membri debbano provvedere, qualora il denunciante lo richieda, a tutelare l’identità del denunciante o delle organizzazioni che lo rappresentano, qualora la divulgazione sia lesiva dei suoi interessi. Vedremo come questa disposizione verrà recepita dal decreto legislativo di attuazione, tuttavia temo che sia molto difficile garantire l’anonimato del denunciante, dato che il fatto da accertare permetterà, comunque, di risalire al responsabile dell’azione. Forse bisognerà che il decreto si preoccupi di fornire veramente i mezzi necessari all’Autorità Antitrust per intervenire d’ufficio o che aggiunga altre “Autorità di contrasto”, come potrebbe essere l’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari (ICQRF) del MIPAAF, sempre che venga adeguatamente riorientato, proposto anche da De Castro, o prevedere la possibilità di denuncia per via giurisdizionale.
E’ indubbio che la direttiva e il decreto legislativo che la recepirà avranno un effetto dissuasivo su possibili pratiche sleali della parte più forte, perché le pesanti sanzioni aumentano il rischio del costo che ne potrebbe derivare per il responsabile. Ma non basta!
Per ultimo, forse sarebbe meglio agire prima per evitare l’adozione di pratiche commerciali sleali, ad esempio fornendo ad acquirenti e fornitori dei contratti-tipo promossi e approvati da organizzazioni interprofessionali rappresentative del comparto, e possibilmente sanzionati a livello ministeriale. Ma questa è un’altra storia, che ripropone il tema, irrisolto, dell’organizzazione del nostro sistema agroalimentare.
Corrado Giacomini
Economista, Comitato di indirizzo del Corriere Ortofrutticolo
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