UVA, L’INNOVAZIONE PASSA ANCHE DAL FUORI SUOLO

Condividi

Un comparto completamente meridionalizzato che ha avuto finora un ruolo di primissimo piano nel panorama internazionale. L’uva da tavola italiana – 45 mila ettari investiti per oltre 900 mila tonnellate di prodotto all’anno, di cui il 45% viene esportato – si produce per il 55% in Puglia e per il 41% in Sicilia rendendo il Bel Paese leader del comparto in ambito europeo e fino a pochi anni fa anche a livello internazionale.
La leadership mondiale negli ultimi 5 anni è però stata indebolita dalla crescita sui mercati internazionali di altri Paesi produttori tra cui spiccano Cile e Perù.
Lo stato del comparto italiano dell’uva da tavola, con i suoi punti di forza e di debolezza è stato descritto da Rosario Di Lorenzo, docente all’Università di Palermo e presidente dell’Accademia Italiana della Vite e del Vino, lo scorso 8 maggio al “Table Grape Symposium” che si è tenuto il primo giorno del Macfrut di Rimini.


Innovazione per l’uva da tavola: il fuori suolo

Dal docente palermitano che ben venticinque anni fa, tra le altre cose, ha cominciato a esplorare nuove tecniche produttive e particolari innovazioni nel settore dell’uva da tavola, quest’anno una interessante novità: la produzione di uva da tavola basata sull’adozione della tecnica del “fuori suolo”. Una tecnica ormai rodata e adottata da quasi tutte le aziende che producono ortaggi in ambiente protetto ma che, per l’uva da tavola, rappresenta una vera novità. E che, analogamente a quanto accade per l’orticoltura che si pratica a nel Sud-Est della Sicilia, non può prescindere da una adeguata e qualificata presenza di consulenti agronomi specializzati.

Uva da tavola come le ortive in serra


Il fuori suolo per la coltura dell’uva da tavola non presenta grandi limitazioni: le coltivazioni sono ormai tutte sotto copertura di film plastico e quindi adatte ad essere condotte come le serre. La parte più delicata riguarda la fertirrigazione in cui il dosaggio dei principi nutritivi deve essere ben bilanciato in funzione dello stato fenologico delle piante. Da qui l’esigenza di una consulenza specialistica non occasionale.
“L’innovazione della coltivazione dell’uva da tavola fuori suolo è da considerare ormai matura e trasferibile nelle realtà aziendali”, afferma Rosario Di Lorenzo. E continua: “Si tratta di un metodo che assicura produzioni comparabili a quelle che si ottengono nella coltivazione su suolo naturale. In alcuni casi possono essere addirittura maggiori. L’importante è che si scelgano varietà precoci e fertili”. Possibile? Certo. Soprattutto se si sceglie di adottare una tecnica che forza la pianta a una seconda fioritura successiva alla prima raccolta.

Due cicli produttivi in un anno

Di Lorenzo spiega meglio: “Adottando il fuori suolo e sfruttando il fatto che le temperature nel periodo settembre-novembre si sono decisamente innalzate, è possibile realizzare due cicli produttivi nel medesimo anno”. Dopo la raccolta, che mediamente nel fuori suolo si pratica con un anticipo di circa un mese (fino al 30 maggio si raccolgono Black Magic e Matilde ed entro il 10 giugno si conclude la raccolta della Vittoria), si procede alla potatura. Bastano 100 giorni e si ottiene un secondo raccolto che è comunque un po’ meno abbondante del primo. Ma c’è di più. Per realizzare un nuovo vigneto si usano talee radicate franche di piede che, a distanza di un anno dalla loro preparazione, già fruttificano regolarmente. Circostanza che abbatte il tabù delle colture arboree che avrebbero un ciclo troppo lungo per potere far fronte con immediatezza alle mutate esigenze dei consumatori.

Vantaggi del fuori suolo


Il fuori suolo presenta numerosi vantaggi. Spiega il docente siciliano che presiede l’Accademia italiana della vite e del vino: “Oltre all’anticipo di produzione e all’extrastagionalità, permette una rapida valutazione varietale e una dinamicità produttiva finora mai sperimentata dai produttori: visto che le piante entrano subito in produzione, il cambio della varietà può essere realizzato facilmente. Ma non solo. Il fuori suolo permette di superare i problemi connessi alla stanchezza dei terreni e consente di ampliare il calendario di commercializzazione”.
Come sempre, però, non sono solo rose e fiori. Qualche problema con il fuori suolo bisogna pure affrontarlo. Il primo è la scelta delle cultivar: non tutte danno buoni risultati. Gli esperti consigliano quelle precoci e fertili (tra queste, oltre a quelle messe alla prova nelle coltivazioni sperimentali, viene segnalata anche la Regal Seedless) che meglio si esprimono in termini di anticipo produttivo e di rese per pianta e che giustificano la scelta della tecnica innovativa. Poi c’è quello della disponibilità d’acqua continua e della nutrizione minerale che deve essere realizzata con criteri molto scientifici. Non a caso nella sperimentazione sono stati coinvolti Biagio Iemmolo, Biagio Dimauro, Giovanni Inghisciano e Corrado Talmi, tutti agronomi esperti in fuori suolo nelle ortive.
Substrato e contenitore (vaso o sacco) sono i veri costi aggiuntivi da considerare. Finora buoni risultati sono stati ottenuti con la fibra di cocco, ancora meglio se mista a piccole percentuali di vermiculite. Infine, non da sottovalutare la gestione del clima in relazione al tipo di copertura.

Il comparto dell’uva e la necessità di cambiamento

“Il comparto italiano dell’uva da tavola – afferma il docente di viticoltura del Dipartimento di Scienze Agrarie, Agroalimentari e Forestali dell’Università di Palermo – se vuole mantenere il proprio ruolo di leader nel commercio mondiale, nei prossimi anni dovrà affrontare un significativo cambiamento. Cinque elementi costituiscono sfide importanti e criticità a cui trovare soluzioni: il climate change, la concorrenza di altri paesi produttori, le differenti esigenze dei mercati e dei consumatori, la necessità di modificare l’architettura e la gestione dei sistemi vigneto e le esigenze di innovazione e di processo. Per arrivarci, però, bisogna lavorare in armonia, ciascuno per le proprie competenze, basandosi su una seria programmazione, mirando alla fondamentale aggregazione e sviluppando la necessaria ricerca connessa all’innovazione”.
Cosa che finora non è stato possibile realizzare. Tant’è che, negli ultimi anni, nonostante per le varietà apirene sia sempre maggiore sia l’apprezzamento dei consumatori, che l’orientamento nella produzione, le due regioni produttrici si sono mosse in direzioni diverse.
In Puglia, nell’ultimo triennio, quasi il 100 per cento dei nuovi impianti è stato realizzato con varietà apirene, mentre in Sicilia c’è ancora una forte resistenza nei loro confronti e la percentuale non supera il 25%.


Proiettare l’export verso tutti i Paesi consumatori


I principali paesi in cui l’Italia esporta sono Germania e Francia. Avere come primo mercato il Vecchio Continente può rappresentare un valore aggiunto, trattandosi di un mercato ricco e in grado di valorizzare le qualità organolettiche delle uve ed il packaging del prodotto. Ma questo non deve farci dormire sugli allori e ci si deve sforzare per essere pronti e proiettati per l’export in tutti paesi consumatori. Il motivo? Semplice: si deve evitare che gli altri paesi produttori possano pian piano erodere le nostre fette di mercato e poi è bene non dimenticare che la diversificazione dei mercati di riferimento è la prima regola di un’economia solida e performante.

Angela Sciortino

Sfoglia ora l'Annuario 2023 di Protagonisti dell'ortofrutta italiana

Sfoglia ora l'ultimo numero della rivista!

Join us for

ISCRIVITI ALLA NOSTRA NEWSLETTER QUOTIDIANA PER ESSERE AGGIORNATO OGNI GIORNO SULLE NOTIZIE DI SETTORE